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Gianfranco Cercone. “L’infernale Quinlan” di Orson Welles: quando la passione per la giustizia si fa crimine
15 Maggio 2015
   

La ricorrenza in questi giorni del centenario della nascita di Orson Welles (1915 - 1985), ci offre la graditissima occasione di rievocare uno dei grandi film che ha diretto e interpretato: L’infernale Quinlan, del 1958 (ma il titolo originale, più significativo, è Touch of evil: tocco maligno). Lo si trova pubblicato in dvd nella versione restaurata e ricostruita secondo le indicazioni dell’autore (capitava infatti che i film di Welles fossero manipolati, “normalizzati” – ma l’impresa era disperata – dai produttori di Hollywood!).

In cosa consiste “il tocco malvagio”? Probabilmente nella consuetudine di un prestigioso ispettore di polizia americano, di fabbricare ad arte delle prove false per incastrare gli indiziati di gravi crimini, che secondo il suo fiuto sono certamente colpevoli.

L’arma del delitto – nel caso illustrato dal film: due candelotti di dinamite – è introdotta nella casa dell’indiziato e poi “rinvenuta” nel corso di una perquisizione.

L’ispettore ha evidentemente a cuore che la giustizia faccia il suo corso, ma sciolta dall’“impaccio” dell’osservanza delle leggi. Così, malgrado tale passione per la giustizia, il titolo del film, così come, tanto più espressivamente, il linguaggio delle immagini, suggeriscono che l’ispettore non soltanto è lui stesso un criminale, ma anzi quasi un’incarnazione del diavolo (secondo la deformazione puritana che il crimine assume nel film).

Il racconto è ambientato in una città di frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti e, come capita anche in certe città portuali, vi proliferano i locali equivoci, i bordelli, lo spaccio di droga, e insieme la criminalità organizzata che tradizionalmente presiede a questo genere di affari. Tale spicchio di mondo – del quale è resa nel film nel modo più vivido, con un fuoco di fila di invenzioni visive e sonore, l’atmosfera malsana, l’opprimente mancanza di aria fresca; dove lo scintillio dei locali notturni cede il posto all’alba, ai rifiuti che il vento rotola per le strade deserte o che intorbidano l’acqua di un fiume – è come un’estensione del corpo dell’ispettore; a lui correlato come un regno al suo reuccio.

L’ispettore è interpretato, davvero magistralmente, dallo stesso Orson Welles. Per tutto il film, protesta, e a volte piagnucola, le proprie ragioni. Sua moglie fu uccisa da un uomo che restò impunito. E tutti i suoi sforzi di servitore pluridecennale, malpagato, dello Stato, sono stati volti a che una simile ingiustizia non si ripetesse mai più. Eppure i suoi occhi torpidi, appena ravvivati da una luce beffarda, suggeriscono che egli è consapevole della propria corruzione: della quale tuttavia, forse per inveterata abitudine, non sa liberarsi, così come è quasi imbozzolato nel suo corpo da pachiderma. E infatti il percorso del personaggio, contrastato da un ispettore messicano che crede invece nello scrupoloso rispetto della legge, lo condurrà, per coprire i propri misfatti, a colludere con la criminalità organizzata, a farsi complice di uno stupro collettivo, e perfino a macchiarsi di un omicidio.

La tenutaria di un bordello (cartomante) – una prestigiosa apparizione di Marlene Dietrich – colei che sembra comprenderlo intimamente, fino all’esattezza profetica, come se i due si rispecchiassero l’uno nell’altra, davanti al suo cadavere elogerà, con una formula sibillina, la sua “grandezza”. Ed è vero che l’ispettore aveva un autentico talento per individuare i colpevoli.

Eppure tutto il film suggerisce che l’ordine e il bene sono dalla parte del più mediocre ispettore messicano, che è però onesto, e difende con passione il valore della legge.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 11 maggio 2015)


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