“Democrito di Abdera si strappò gli occhi per pensare/ il tempo è stato il mio Democrito/ Questa penombra è lenta e non fa male/ scorre per un lieve pendio/ e assomiglia all’eternità/ …non ci sono lettere sulle pagine dei libri/ … tutto questo dovrebbe intimorirmi/ ma tutto questo è una dolcezza, un ritorno…” J.L. Borges, Elogio dell’ombra
Lasciarsi andare verso una perdurante oscurità come condizione di contatto tra vita e morte. Senza vincitori né vinti, albero senza rami su cui niente può radicare se non nell’attimo in cui gli occhi, facendosi lacrima, colgano l’interregno, ci scivolino dentro e pretendano una priorità ontologica della scrittura sugli occhi del corpo. Da lì finalmente abbandonarsi a percepire l’essenza dove la parola poetica non si arrenda ma invece prenda consapevolezza di sé, del suo essere sempre e ogni volta rinnovata, ricreata, generata, uccisa ma gravida di connotazioni impavide del precipizio abissale nella dolorosa consapevolezza dell’inesistenza del cielo. La parola vuol dire il proprio accadere, scrive Flavio Ermini, e dopo il crollo di ogni certezza essa si nomina proprio nella sottomissione all’oscurità conscia di impossibili approdi.
«Giro attorno a Dio, all’antica torre/ giro da millenni;/ e ancor non so se sono un falco, una tempesta/o un grande canto» scrive Rilke e risponde allo smarrimento della soggettività cosciente suggerendo come possibile la dispersione e l’abbandono al flusso caotico senza orizzonti. «È questo il tempo della sconfitta,/ qui da noi è sempre più buio». Questi spaesanti versi concludono una poesia di Sandro Varagnolo (Anterem, 88). Con questo approccio affatto convenzionale il poeta Flavio Ermini s’accosta alla parola poetica di Rilke. Per lunghi tratti ci avventureremo in spazi comunemente inaccessibili. Sarà faticoso ma la vera fatica sarà, in fondo, di perdersi senza tornare in vista di Itaca. E il seme della scrittura su foglio bianco seguirà l’eterno tratturo della vita dal grembo materno a quello della morte tanto da permetterne la convivenza, l’accoglienza, la non separazione e lo spazio intermedio entro il quale il segno, a qualsiasi costo dovrà farsi parola responsabile e sottomessa... Un grembo atemporale dal quale proveniamo e al quale torniamo in una permanente oscurità, da qui la possibilità del canto, come scrive Rilke, che si rigenera nel morire continuamente a se stesso nell’auroralità della parola poetica. Ed è sempre Rilke a dirci «noi che pensiamo alla felicità/ come un’ascesa, avremo l’emozione quasi sgomenta di una cosa ch’è felice quando cade».
Ma il grembo, il vero grembo della nostra crescita sarà la scrittura e tramite essa produrremo l’unicità del luogo entro la cui oscurità cercheremo origine, identità, essenza. Lo spaesamento, visionarietà, scomposizione prima del ricongiungimento appaiono nella franante immagine della copertina che “accoglie” lo scritto di Flavio Ermini, riferita allo sgomento caotico che Rilke espresse nei Quaderni di Malte Laurids Brigge.
Di terra è la poesia “senza io e priva del tu”, simile all’amore, essa si coniuga su ampiezze infinite e si rigenera in esse; qualora l’ansia, lo sgomento premessero il petto, il poeta saprà cercare dentro sé un luogo interno inconoscibile il cui rapporto nasce dall’oscurità. «La verità per crescita di buio/ Più a volare vicino s’alza l’uomo,/ si va facendo la frattura fonda» (Ungaretti, in Anterem n. 88).
E ancora Rilke: «Ma il viaggiatore dal pendio sulla cresta del monte non/ porta a valle una mano piena di terra, indicibile a tutti,/ ma una parola conquistata, pura, la gialla e celeste/ genziana. Noi siamo qui forse per dire: casa,/ ponte, fontana. Porta, brocca, albero da frutto, finestra, –/ al più: colonne, torre… ma per dire, capisci,/ per dire così, come mai le cose stesse/ intimamente sapevano d’essere».
Affrancare l’io e vivere sapendo di rovinare e rivivere, “una madre e una morte” ne connotano l’intensità, il loro congiungersi sino a tornare all’origine, all’apeiron con sottomissione, laddove esiste l’inesprimibile. E la poesia curerà le ferite, risanerà dalle apparenze, dalla storia e sarà grida e pianto, disperato amore di una terra generatrice, rovinata struprata e rinata nell’abbraccio consolatorio, voce di vivi e morti finalmente ricongiunti, vicini al cielo e alle stelle che sfiorano la terra.
Patrizia Garofalo
Flavio Ermini, Rilke e la natura dell’oscurità
Discorso sullo spazio intermedio che ospita i vivi e i morti
AlboVersorio, 2015, pp. 48, € 5,90
Trascrizione della conferenza tenuta da Flavio Ermini il 23 novembre 2014 a Villa Sioli, a Senago, nell’ambito di un ciclo di incontri, promosso da AlboVersorio e curato da Erasmo Silvio Storace, sull’opera di Rainer Maria Rilke. Il testo è stato rivisto dall’autore.