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Milano e la sua storia nell’opera di Giovanni Cerri 
di Mauro Raimondi
12 Maggio 2015
 

Su Milano si scrive molto. Ma, per fortuna, la città è anche nel cuore dei pittori, come dimostra Milano ieri e oggi. La città e i luoghi simbolo, la nuova mostra di Giovanni Cerri che si tiene dal 5 al 23 maggio presso Cortina Arte, via Mac Mahon 14/7 (orari 10-12.30, 16.30-19.30 tranne domenica e lunedì).

Parigi, Berlino, Toronto, Francoforte, Copenaghen, Colonia: numerose sono le città in cui Cerri ha tenuto delle “personali”, ma fra tutte Milano, la sua Milano, resta la più importante, almeno affettivamente. Perciò, per introdurvi all’opera dell’artista e invitandovi ad andare a vederla di persona, ho pensato di offrirvi la sintesi di una delle prefazioni che arricchiscono il catalogo della mostra meneghina, quella per l‘appunto riguardante il rapporto tra Cerri e Milano.

 

“Chì dedree l’è trii mes che fann tonina di cà de Milan vecc: e picchen, sbatten giò camin, soree, finester, tôrr e tecc, grondaj, fasend on catanaj in mezz a on polvereri ch’el par propi sul seri la fin del mond”. Così, scriveva in Milanin Milanon Emilio De Marchi, uno tra i più addolorati testimoni della distruzione della città vecchia avvenuta a partire dalla seconda metà del 1800. La modernità (e si perdoni un termine così generico) ha dato molti vantaggi, nessuno lo discute. Ma ha anche preteso qualcosa a tutti i luoghi del mondo: a Milano, di mutarsi da città d’acqua in città di cemento. Decisamente troppo. E di questo Giovanni Cerri, è pienamente consapevole. Nonché testimone non neutrale perché, a un’attenta analisi, si nota come la sua opera rinunci a una comoda lettura acritica o indulgente del reale, ma faccia trasparire la sua opinione su quello che è accaduto (e accade ancora…) in modo chiaro, esattamente come uno storico che non si limita a registrare gli avvenimenti ma li giudica.

Infatti, il primo filone in cui racchiudere i quadri di questo catalogo può essere battezzato la “Milano evocata”. La città, cioè, chiamata fuori dal destino di morte in cui i suoi amministratori l’hanno fatta cadere, in quanto Cerri è andato a cercare proprio la Milano scomparsa sfidando la nitidezza di fotografie che molti conoscono e vincendone il confronto attraverso una pittura densa di emozioni davvero impossibili da trasmettere a dei semplici scatti.

Grazie a questo approccio “sentimentale”, quei luoghi che l’artista ha ritratto sembrano riprendere vita e ridarla a tutti quei milanesi che di lì sono passati pensando ai fatti loro, magari soffrendo o sognando. Basti osservare, ad esempio, Le cinque vie, il Verziere, quelle Case di ringhiera con sfondo il Duomo, simbolo di una Milano popolare svenduta agli interessi immobiliari e finanziari. Così come, spostandoci in periferia, la Pirelli Bicocca ora trasformata in un village tutto (o quasi) di cemento, la demolita Villa Angelica sulla Martesana. Oppure, quei siti di Milano che esistono ancora, seppur modificati: una Darsena precedente alla follia di voler costruire dei parcheggi sotterranei (!), uno stadio di San Siro prima dei salotti vip e di un terzo anello che l’ha fatto diventare simile a un’astronave. Infine, Piazza S. Marco prima del barbaro interramento del Naviglio.

“L’è la nostra Milan veggia – tiremm el fiaa – l’è la nostra Milan, zion, che canta e che sona e che balla a carneval!”, scriveva in A Carlo Porta l’immortale Delio Tessa. Quella era la nostra vecchia Milano, e di conseguenza non sono casuali gli omaggi ai testimoni del “tempo che fu”: ad Angelo Inganni, con un Teatro alla Scala prima dell’apertura della piazza; a Pompeo Calvi, con l‘antica Porta Ticinese; a Giovanni Migliara, con Porta Nuova. Giovanni Cerri cita volutamente le loro opere, perché quella Milano non vada dimenticata. E in questa “necessità della memoria” si accosta di nuovo al lavoro degli storici, con l’innegabile vantaggio di potere utilizzare il fascino dell’arte.

Non solo: dopo averla accarezzata, Cerri nella Storia ci si tuffa proprio, scegliendo due momenti di epocale importanza per la città. Innanzitutto, il massacro del 20 ottobre 1944, provocato dalle bombe degli alleati. Da Gorla a Gaza, l’artista ha intitolato il quadro, perché i quattro bambini che emergono sdraiati in primo piano, dopo che l’iniziale sconcerto dell’osservatore si è sedimentato, sono le vittime innocenti di ogni guerra passata, presente e futura.

Quindi, la Storia ci si ripresenta in 15 dicembre 1969, quando una Milano costernata affollò la Piazza del Duomo per stringersi attorno ai morti di una strage che sarebbe rimasta vergognosamente impunita (come quasi tutte, del resto). Lo stesso giorno, Giuseppe Pinelli precipitava da una finestra della Questura per un “malore attivo”, una formula che, quando ricordata, rischia costantemente di far cadere nel ridicolo una tragedia.

Nel presente catalogo, comunque, Giovanni Cerri volge il suo sguardo anche verso quello che è “sopravvissuto”. Ed è una “Milano reinterpretata”, quella che esce dalle sue tele, come testimonia il quadro del principale monumento meneghino, definito durante i secoli nei più svariati modi: Ghiacciaio da Théophile Gautier, Poesia scolpita nel marmo, Canto sbozzato nella pietra e Visione da Mark Twain, Giocattolo secolare, quasi tutto zucchero da Rainer Maria Rilke. Cerri, invece, in Se il Duomo fosse rosso rifiuta ogni esaltazione e trasforma la cattedrale in tutt’altro, spiazzando l’occhio abituato alle cartoline. Con quel colore che nessuno le aveva mai dato, la chiesa sembra bruciare: un nuovo e suggestivo punto di vista riproposto ne Il Cremlino è a città studi, dove il Politecnico ci appare avvolto da un rosso potente.

La volontà di negare qualsiasi celebrazione ritorna, poi, in tutto questo secondo filone caratterizzato da un vero campionario di vedute tipiche della città. Emblematici, a riguardo, Nuova Babilonia e quel Gotico milanese che inserisce il grattacielo Pirelli e la Stazione Centrale in un’atmosfera alla Blade Runner, forse proprio quella che provarono gli immigrati vedendolo per la prima volta dopo essere appena “sbarcati” a Milano.

Con i loro cieli-non cieli (tipicamente meneghini), la loro decontestualizzazione, la mancanza di uno sfondo preciso che funga da punto di riferimento, i quadri lasciano spazio all’immaginazione e all’interpretazione dell’osservatore. Così l’Arco della pace, il Castello Sforzesco, Palazzo Castiglioni e Palazzo Bovara, Sant’Ambrogio, San Lorenzo, San Cristoforo e San Maurizio, Porta Romana e Porta Garibaldi, Piazza Piemonte, Piazza Mercanti e Piazza Vetra (“dove una volta conveniva venirci col coltello”, come scrisse Giovanni Raboni), paiono emergere dal nulla, avvolti da una luce particolare, indefinita, che inquieta più che tranquillizzare. Al pari del dipinto del Palazzo della Borsa di Paolo Mezzanotte, intitolato Il tempio, che nel suo titolo richiama un’altra delle caratteristiche di Milano: la vicinanza al denaro e al potere finanziario di una città dove “la grana sarebbe quella che si prende, i danè quelli che si pagano”, come scrisse Luciano Bianciardi ne La vita agra.

“Quanto sei brutta Milano dei quartieri ghetto e come devono essere brutti dentro quelli che ti hanno disegnato e fatto crescere così, i palazzinari, i Ligresti, gli assessori ladri”. Così tuonava Giorgio Bocca in Metropolis, e le sue parole annunciano adeguatamente il terzo filone in cui si può comprendere la Milano di Giovanni Cerri: quello delle periferie. Il confine della città, come recita il titolo di un quadro. Che già c’erano, come ci viene mostrato in Case popolari anni ’30, ma che nell’ingigantirle vennero snaturate, diventando quel non-luogo di cui si è tanto discusso (invano?) in tempi non lontani.

I Gasometri della Bovisa, Le officine, Via Padova con il tram mostrano questo mondo passato ma in realtà ancora vivo, immerso nell’estraniante bianco e nero in cui Cerri l’ha volutamente avvolto. Lo stesso che Luchino Visconti scelse per ritrarre la città in Rocco e i suoi fratelli, perché era così che un immigrato vedeva Milano.

Questa periferia è qualsiasi periferia, nei decenni sempre uguale se stessa, sembra che dicano i quadri, sia quando ci si presentano davanti le Torri bianche del Gratosoglio o via Tofane a Crescenzago. Quasi tutti senza persone, tranne nell’opera in cui l’artista ci fa vedere una ragazza nel cortile di una casa di ringhiera durante la Seconda Guerra Mondiale, come si evince dalla scritta US indicante la presenza di un rifugio. Molto probabilmente, un omaggio alla madre Zina, che al figlio ha saputo meritoriamente trasmettere quell’amore per Milano che appare profondo e malinconico in tutta l’opera di Giovanni Cerri.

Saludi.

 

Mauro Raimondi

 

 

www.giovannicerri.com


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