“Non recidere forbice, quel volto,
solo nella memoria che si sfolla,
non far del grande suo viso in ascolto
la mia nebbia di sempre” (E. Montale)
La poesia di Antonio Barbuto
tra lontananza e lontanità
«E torna la melanconia inquieta del distacco/ e l'urgenza di trascrivere l'evento/ nelle carte di una scrittura privata». La consapevolezza del vuoto genera il terreno fertile della poesia di Antonio Barbuto argomentata e scelta a “risarcimento di lesa umanità” come lui stesso scriverà nella silloge. È il primo lavoro in versi dell'autore, un mare verso il quale salpa in un ostinato istinto di sopravvivenza dopo anni di studi e pubblicazioni di critica letteraria. «...un filo d'amore contro il vuoto pieno degli oggetti/ ...nell'assidua finzione di vivere» (pag. 33). L'andamento paratattico e i frequenti enjambement seguono l'andamento del cuore e sottolineano l'ansia del poeta, teso a recuperare il passato come consolazione e cura del presente. Nel silenzio che veste l'assenza, la scrittura diventa valenza segnica di una presenza avvertita nella lontananza e sperata nella lontanità. A mio avviso proprio in queste due connotazioni del poeta consiste la dicotomia in cui egli vive l'abbandono, la condizione di orfano, la caducità mista alla speranza di un “altrove”: «...la mia pena di non essere certezza/ per te lontanità inabitabile/ dove tutto è perfetto e protetto/ come nelle tavole degli atlanti/ ...dove nasce la melanconia/ di quest'inchiostro già remoto/ a sospettare che appartieni agli dei/ a sospettare che appartieni agli dei/ ...e non saprai mai/ perchè cerchiamo altrove, sempre più in là...» Ed insieme il sogno dell'azzeramento del trascorrere del tempo, del suo scolorarsi in assillanti memorie
«...un giorno/ senza mattina né mezzogiorno/ né il farsi tardi/ ma un giorno solamente fatto di giorno/ di pioggia di nebbia e di moltissime ore/ ...vivere con quel giorno per un giorno/ ...un giorno copioso di minuzie// come una poesia d'addio/ o una promessa d'amore». Sogno e realtà dialogano su “l'assidua finzione del vivere” ne l'alibi del clown; maschera che ride e si configura consapevole di esistere tra sorriso e lacrime nel tocco lieve che vorrebbe dare alla vita che gli sfugge mentre pulsa di smarrimento accorato e creazione. «infoltisco l'amarità ogni giorno/ nel cerchio d'ansie/ incolli con specchi di parole/ chiuso nell'inerme delirio/ per mala mescianza».
E creazione è la poesia profonda e densa dell'autore che rimanda al significato originario di fingere come “creta da plasmare” per trovare un senso, “un varco” che ci offra una speranza. Fingo come immagino, come creo, come poesia a cui si attribuisce valore salvifico.
«Un ultimo miracolo che ci resta» scriveva Angelo Maria Ripellino «è, forse la poesia».
La poesia-essenza è vissuta dall’autore come espressione di vita, capace di contrastare il dolore, la disumanità del mondo.
Tocca poi al lettore leggere nel non detto, colmare le ellissi, ristabilire i nessi occultati, tenendo presente che il più profondo è l’immediato e l’immediato è tutto calato nel linguaggio poetico e attraverso il linguaggio possono essere costruiti infiniti rapporti tra l’esistenza e la realtà, tra i corpi e le loro relazioni.
Allora la poesia si fa espressione di libertà, ma in modo che la realtà si ordina secondo una struttura soggettiva, necessaria e allo stesso tempo evidente se rapportata al mondo nella sua intrinseca varietà.
Non contano tanto poi i temi nuovi che entrano nella poesia quanto “le parole” che ne seguono la presenza, ed è interessante notare come la felice soluzione espressiva coincida con la naturalezza del vivere e del guardare ad essi.
È la sensibilità con la sua vulnerabilità ad entrare in gioco, e quasi ad imporre all’intelletto di regolare quel confuso procedere, agendo su di esso come facoltà spirituale che crea ordine a partire dal disordine.
È la teoria dei contrari che sostengono alcuni filosofi (come fece Eraclito) secondo i quali un qualcosa non può esistere senza il proprio contrario. Quindi l'ordine può nascere solo dal caos e il caos può nascere solo dall'ordine, come la luce dal buio.
In sede strettamente letteraria, o meglio poetica, tale caratteristica potrebbe essere esemplificata nell’espressione del poeta e scrittore francese Paul Valery, “quel che c’è di più profondo nell’uomo è la pelle”. E Antonio Barbuto imprime alla sua parola la corporeità del foglio e dei libri della sua amata biblioteca dove è possibile attingere ad anime e voci sempre presenti. «colla punta del pennino/ inseguo una certa compostura di parole/ in questo mite sole di novembre/ che volge al suo exitum/ come gli scampoli d'elegia/ se ti vado a cercare nei versi./ Il giorno si scioglie in fondo al rigo/ e mentre ti penso declina/ sul margine di un'ipotesi precaria».
Patrizia Garofalo
Antonio Barbuto, L'alibi del clown (poesie 2001 – 1962)
Calabriae Academia Historica atque Letteraria, 2011, pp. 79
Edizione a cura dell'Associazione culturale “La Radice”