L’aria della stanza era pesante, immobile, retaggio di una notte insonne, agitata da incubi.
All’alba Cristiana lasciò il letto e si diresse verso la finestra, l’aprì e per un po’ stette con lo sguardo fisso verso il cielo che man mano si colorava delle sue stesse più intime, profonde ferite.
La malattia di Carlo le aveva fatto scoprire il linguaggio del cielo, quello che, nel dolore e nell’angoscia, permetteva di mantenere viva nel suo cuore la fiamma della speranza, le comunicava la forza di procedere, di avanzare tra gli schianti e le macerie visibili e invisibili, ma ancora roventi, le dava la forza di affrontare il nuovo giorno.
Andò di qua e di là per la casa come una sonnambula, come un automa, infine entrò nella stanza di Carlo e lo svegliò.
Il bambino si stropicciò gli occhi ed emise incomprensibili suoni gutturali, fece qualche resistenza alla madre mentre lo trascinava in bagno e poi a tavola ove era già pronta la sua colazione, una tazza di latte con orzo che egli rifiutò quasi capisse che c’era qualcosa di sgradito nell’aria.
La madre gli portò diverse volte la tazza alle labbra, ma lui a denti serrati alzò lo sguardo verso il soffitto e dette una spinta alla scodella che soltanto la mossa abile del braccio di Cristiana evitò che il latte si versasse sulla tovaglia.
Un bambino di sette anni Carlo, dagli immensi occhi neri inespressivi, come di vetro, i capelli a riccioli scuri come quelli della madre. La carnagione chiara, quasi diafana; le mani in continuo movimento esprimevano il disagio e la propria estraneità al mondo circostante.
A fatica Cristiana lo vestì. Lo lasciò seduto su una poltrona del soggiorno. Andò a rifare i letti e raccogliere qua e là pezzi di riviste che il figlio aveva strappato la sera prima.
L’appartamento in cui vivevano in affitto, per quanto lei si sforzasse di renderlo accogliente, lo percepiva cupo, oscuro, opprimente: si trovava al quarto piano di un vecchio stabile e quando saliva le scale, al ritorno da una stressante giornata di lavoro, i calcinacci dei muri scrostati delle scale pungevano come spine sul suo esistere che ogni giorno si trascinava una solitudine lancinante.
L’angoscia e la paura della diversità, della estraneità del figlio l’allontanavano tanto dal controllo razionale e dalla decifrazione emozionale, quanto da ogni strategia di cura, che pure, nei modi e nei tempi a lei possibili, procurava al figlio, sempre senza alcun risultato.
E ciò la deprimeva, la scoraggiava.
Magra e fragile Cristiana era troppo debole per portare il peso che la vita le aveva riservato; ritmava i suoi giorni come quelli di un film in bianco e nero anche se nella parte più profonda di se stessa sognava un’esistenza altra, certamente a colori.
Finì di vestirsi, indossò su un vestito di maglia a fantasia una giacca di finto camoscio e un vezzoso cappellino.
Si avvicinò alla poltrona dove stava seduto il bambino e, come a voler spezzare quella lastra di ghiaccio che si era creata tra loro, chiese:
– Ti piace, Carlo, il mio cappellino? Usciamo. Sei contento?
Carlo sembrava non averla sentita e continuava a guardare il soffitto, ma l’espressione del suo volto diventò ancora più tesa, lo sguardo si riempì di agitazione. Cristiana capì che, invece, aveva sentito. Andò a prendergli il giubbotto di pelle nell’armadio che le era costato più di una settimana di lavoro, ma a Carlo non piaceva, lui voleva sempre quella vecchia, una giacca rossa di lana che ormai gli stava stretta. Riuscì ad infilargli il giubbotto nuovo tra un brontolio ed uno scossone, poi gli aggiustò il collo della camicia e lo prese per mano.
Davanti alla porta c’era già pronta la valigia che Carlo guardò attentamente, ma soltanto perché era nuova.
– Partiamo – disse la madre – andiamo in città – ma il volto del bambino non cambiò espressione, impassibile.
– È tua Carlo! È la tua valigia, dentro ci sono i tuoi vestiti, i tuoi giocattoli.
Ma lo disse con voce tremante e con tono sbagliato. Il ragazzo sembrò non capire.
– Prendiamo l’autobus, Carlo, andiamo in città!
Non era mai stato su un autobus né era mai andato in città.
Dopo essersi accertata di aver spento le luci e il gas varcò la soglia con il figlio e la valigia. Chiuse la porta e fu subito investita da un mix di odori di cucina e di bagno, sgradevoli, detestava quel cocktail olfattivo cui si era rassegnata con dispettosa fatica.
Scendendo le scale, la valigia le sbatacchiava contro la gamba e se non si fosse sostenuta all’appiccicosa e sporca ringhiera di legno, avrebbe perso l’equilibrio e scivolato lungo le scale fino a raggiungere il pianerottolo sottostante. Qui c’era già ad aspettarla la signora Teresa, una anziana donna che per tanto tempo si era occupata di Carlo nelle ore in cui lei era a lavoro; faceva da baby-sitter, ma negli ultimi mesi si era dichiarata incapace per quel difficile compito.
– Ciao, mio caro, – disse rivolgendosi al ragazzino – ti ho preparato i biscotti alle mele che tanto ti piacciono!
Carlo si girò verso il muro ed emise un grugnito.
Cristiana avrebbe voluto che almeno le facesse un sorriso o semplicemente prendesse i biscotti.
– Grazie, Signora Teresa – disse prendendo lei il pacchetto – lei è sempre tanto gentile!
– Lo perdoni! Purtroppo è la malattia che avanza. Ma sono sicura che i suoi biscotti gli piaceranno tanto.
La signora Teresa, aiutandosi col bastone, tenne aperta la porta che stava per chiudersi, e si allontanò singhiozzando. Cristiana sentì una fitta al cuore.
Povera Teresa! anche lei aveva capito quanto straziante fosse la decisione che era stata costretta a prendere.
Alla fermata dell’autobus le persone, che erano là in attesa, puntarono tutti contemporaneamente gli occhi sul ragazzino, incuriositi dalla sua andatura dondolante e dal continuo movimento della testa, ora in avanti ora indietro.
Come avrebbe voluto dare una sberla a quei curiosi!
Grande sollievo per lei quando vide arrivare l’auto.
Con disinvoltura e ostentata indifferenza verso gli sguardi indiscreti degli astanti, aiutò il piccolo a salire e, dopo averlo sistemato nel sedile vicino al finestrino, si sedette accanto, lo accarezzò e gli scartò una caramella.
Carlo dimostrava nervosismo, saltellava sul sedile, apriva e chiudeva il portacenere e avrebbe voluto abbassare il vetro per sporgersi. Quando l’auto raggiunse una velocità costante, il piccolo si calmò e, dopo aver appoggiato la testa sul seno della madre, si addormentò.
Anche Cristiana chiuse gli occhi e col pensiero rievocò i momenti più tragici degli ultimi sette anni della sua pur breve esistenza.
Rivide Carlo appena nato: un batuffolo rosa in perpetuo moto: fin dai primi giorni di vita non faceva sonni tranquilli e si contorceva ad ogni minimo rumore. Quando lei si rese conto che qualcosa non andava, pregò il padre di portare il figlio dal pediatra.
Le analisi e gli accertamenti furono lunghi e accurati, ma la diagnosi tardava ad arrivare.
Quando finalmente il medico convocò i genitori nel suo studio, parlò a lungo di una grave lesione cerebrale congenita che, difficilmente sarebbe guarita e la terapia sarebbe stata molto costosa e lunga. Prospettò anche la possibilità di un soggiorno negli Stati Uniti d’America per un consulto con gli specialisti del settore.
Dopo quel colloquio, il padre si disinteressò del figlio e lo considerò un estraneo, un essere che non gli apparteneva. Iniziarono le liti e la vita di Cristiana divenne un inferno: l’accusa più infamante, essere lei la responsabile della malattia di Carlo.
Così, senza altra spiegazione, l’uomo che l’aveva fatto sognare andò via.
Si erano uniti giovanissimi e contro il volere dei genitori di lei.
A quel tempo Cristiana aveva soltanto sedici anni e un solo desiderio: andare via di casa, lasciare la vita monotona di quel paesino dell’isola, vivere al nord, ove credeva di realizzare tutti i sogni colorati dell’adolescenza.
Si pentì quasi subito di essere andata così lontana dalla sua terra, dal suo mare e ancor più si afflisse quando i genitori, molto sensibili, in seguito alla fuga dell’unica figlia, a poco a poco si consumarono e si spensero nel giro di qualche anno. Ma più di tutto si pentì della sua scelta, quando l’unione con l’uomo amato fallì e fu da lui abbandonata.
Restò in quella casa nella speranza che lui tornasse.
Per pagare l’affitto e poter sopravvivere assieme al figlio e procurargli le medicine indispensabili, andò a servizio come domestica ad ore presso le famiglie del luogo.
Impensabile sarebbe stato un suo ritorno al paese natio.
Come in visione le apparve il cielo sempre azzurro del suo paese, la casa a pochi passi dal mare, confusa tra quelle degli altri pescatori, rivide la grande barca con cui ogni sera il padre con i suoi uomini, andava a pescare e ritornava, all’alba, carica di pesci, rievocò i dolci momenti in cui papà voleva insegnarle a cavalcare le onde, ma lei, paurosa, non imparò mai.
Al rischio dell’onda alta preferiva stare sdraiata sulla terrazza, al sole, accarezzata dal profumo del bucato al vento.
Struggenti ricordi!
I sogni, nati tra i colori cangianti del mare e il calore del sole, sono finiti sotto l’aggressione della muta e grigia nebbia di quella maledetta città nordica, dove le stagioni si sono precipitosamente addensate e affondate nel silenzio.
O, se tutto potesse sparire ad un soffio e riapparire il papà e la mamma!
Un sussulto di Carlo ed i suoi brontolii la riportarono al presente; riuscì a calmarlo canticchiandogli sottovoce la filastrocca preferita...
L’autobus a poco a poco rallentò: erano già giunti in città.
Dalla fermata dell’auto alla Associazione Oasi del Bambin Gesù il tratto da percorrere fu breve. L’Oasi era un centro - a carattere scientifico - al servizio dei soggetti con ritardo mentale per lo studio delle cause delle malattie cerebrali e dell’individualizzazione dei mezzi di prevenzione, cura e riabilitazione.
Una struttura consigliata già da tempo dal pediatra ma che lei, irrazionalmente, aveva sempre rifiutato.
All’accettazione Carlo fu attratto dalle lampade del soffitto che emanavano una luce bianca, ed incominciò a dondolare il corpo e la testa.
Cristiana dovette firmare delle carte.
Arrivò intanto un’infermiera, alta e snella, e rivolgendosi loro, disse: – Vieni, Carlo. Venga signora a vedere dove abiterà questo bel bimbo.
Tornarono nell’ingresso ed aspettarono l’ascensore, entrarono e l’infermiera pigiò il numero tre. All’uscita li investì un forte odore di disinfettante. Attraversarono un corridoio e l’infermiera aprì con la chiave una porta doppia che aveva una rete davanti ai vetri. Entrarono in un altro immenso corridoio lungo il quale erano allineati diversi lettini bianchi. Non c’era nessun altro e niente faceva pensare che lì vivessero dei bambini tranne un piccolo clown colorato appeso ad una parete.
– Questo è il tuo letto,Carlo – disse l’infermiera. Cristiana vi appoggiò la valigia.
Con voce metallizzata l’infermiera spiegò: – Preferiamo lasciar passare almeno sei mesi prima che i nuovi pazienti ricevano visite dai familiari. Così si abituano più in fretta, mi spiego? Adesso, se vuole, può salutarlo.
Una spina le attraversò il cuore.
Con la mano tremante lentamente gli accarezzò la testolina.
– Tesoro! – disse, ma lui con la bocca aperta guardava le luci del soffitto. Gli diede un bacio: – Ciao, Carlo, ci vedremo stasera.
Era il saluto giornaliero, prima di andare a lavoro.
Uscì dal reparto con l’infermiera e ripercorse il corridoio. Mentre quella apriva la porta con la chiave sentì un grido terribile, ma l’infermiera le diede un colpetto sulla spalla e la spinse delicatamente fuori.
Singhiozzando scese tutte le scale a piedi e diverse volte si dovette fermare. Nell’ultima rampa non vide un gradino e ruzzolò per un tratto. Si rialzò stordita.
Uscì finalmente nella strada e provò un certo sollievo nel respirare aria naturale.
Riprese lo stesso autobus per ritornare a casa.
Si lasciava alle spalle duri anni di amarezze, di rinunce, di umiliazioni, di solitudine.
Provò uno strano trasalimento contemplando la prospettiva di una vita diversa, senza Carlo.
Che cosa l’attendeva adesso? Il dolore del pensare o forse il film senza racconto di una verità? o l’attesa spasmodica di una vita altra, magari a colori? e poi… sarebbe arrivata?
Scese dall’auto tutta sgualcita nell’abito e nei pensieri.
Camminò lentamente nella strada, incontrò qualcuno che la salutò. Non rispose. Forse non sentì. Alzò lo sguardo verso il quarto piano del vecchio stabile: dalla finestra del suo appartamento filtrava una pallida lama di luce, come se lei, uscendo, avesse dimenticato di spegnere la lampada.
Rifece le lunghe scale, arrivò al quarto piano, la chiave entrò rapida nella toppa. Aprì la porta e vide nel corridoio le vecchie scarpe di Carlo, a terra, e, su una sedia, l’ultimo album illustrato che aveva comprato per lui, qualche foglio strappato qua e là.
Senza rendersene conto disse ad alta voce: – Carlo, tesoro, che hai fatto?
L’afferrò la vertigine del vuoto dentro e fuori di sé: in lontananza il rombo di un tuono, alle sue spalle il tintinnio dei vetri della finestra per il vento che improvvisamente si era levato, forte.
In quel paese il vento segnava sempre il passaggio delle stagioni.
Guardò l’ora e si lasciò cadere sulla poltrona. Cercava di capire, di vedere chiaro nell’intrigo dei suoi pensieri. Alla fine soltanto una cosa comprese perfettamente: da quel momento in poi, nel film, in bianco e nero, della sua vita, sarebbe rimasto soltanto il nero.
Pina Rando
Il racconto “Distacco” è pubblicato in:
AA.VV., La vita in prosa, puntoacapo Editrice 2015,
antologia dell'omonimo Concorso letterario.