Alla vigilia del 24 aprile, cioè del centesimo anniversario dei massacri di cui fu vittima la popolazione armena di Anatolia durante gli ultimi anni di vita dell’Impero Ottomano, il primo ministro turco Ahmet Davutoğlu si è spinto ben oltre le dichiarazioni del presidente Erdoğan dello scorso anno nel riconoscere l’orrore di quegli eventi. Ha infatti dichiarato: «Le deportazioni degli armeni sono un crimine contro l’umanità». È questa una dichiarazione che riteniamo storica dopo decenni di forte rimozione di quella tragedia. Inoltre lo stesso primo ministro pochi giorni prima in un messaggio rivolto alla comunità armena di Turchia aveva espresso parole di cordoglio per le vittime dei massacri affermando che è un dovere storico e umano coltivare la memoria di quei tragici eventi ed ha annunciato che per la prima volta il 24 aprile sarebbe stata ricordata ufficialmente anche in Turchia la tragedia degli armeni ottomani con una cerimonia religiosa che si sarebbe svolta presso il Patriarcato armeno di Istanbul. A questa cerimonia sarà presente un autorevole esponente del governo turco, il ministro degli Affari dell’Unione europea e Capo negoziatore Volkan Bozkır.
Già il 23 aprile dello scorso anno, l'allora primo ministro e attuale presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdoğan, aveva riconosciuto l'importanza che il 24 aprile ha per gli armeni. Aveva descritto quegli eventi storici come «disumani» e aveva presentato le condoglianze ai nipoti di coloro che persero la vita parlando di un «dolore condiviso». Si è trattato del primo messaggio di questo genere pronunciato da un leader turco; esso è stato diffuso in nove lingue, tra cui l’armeno e il russo.
Sia il premier Davutoğlu che il presidente Erdoğan non hanno pronunciato la parola «genocidio», pur riconoscendo l’efferatezza di quella tragedia. Non vi è dubbio che con quest’ultimo messaggio del primo ministro, alla vigilia della celebrazione del ricordo dei massacri, Ankara voglia compiere un atto di vicinanza e di dialogo col popolo armeno dopo le dichiarazioni del Papa che hanno causato una grave crisi diplomatica.
A nostro avviso il Papa ha mancato la preziosa occasione il 12 aprile scorso, alla presenza del Patriarca armeno Karekin II e del presidente della Repubblica armena Ser Sargsyan, di farsi strumento di dialogo tra le due comunità, la turca e l’armena, cedendo alle pressioni di una di esse.
Riteniamo che la strada maestra per affrontare questioni così controverse siano il dialogo tra le parti e l’approfondimento, senza pregiudizi e precondizioni della ricerca storiografica, a cui il governo turco non intende sottrarsi, avendo proposto la creazione di una commissione internazionale di storici che facciano luce su quella tragica vicenda ricostruendola con imparzialità e assoluto rigore scientifico.
Solo un tribunale penale internazionale ha la giurisdizione per indagare e sanzionare quei crimini definendone la natura sulla base di prove, documenti e testimonianze. La verità storica non può essere stabilita dal prununciamento politico di un parlamento, come è avvenuto in Europa anche in questi ultimi giorni, né tantomeno può essere imposta per legge. Ciò sarebbe un vero e proprio atto di arbitrio da Stato etico, illiberale, pronto a pronunciare dogmi e pronto ad ogni sorta di persecuzione.
Per gli armeni le prove storiche del genocidio sono scolpite nella pietra. Ankara, dal canto suo, come abbiamo visto, riconosce che vi sono stati dei massacri compiuti tra il 1915 e il 1917 ai danni della popolazione armena di Anatolia, ma non accetta che siano definiti «genocidio». Sostiene da sempre che non vi era alcuna volontà genocidiaria da parte dell’allora governo dei Giovani turchi; che non vi era un piano premeditato di eliminazione di un popolo, che si è trattato di massacri e deportazioni da inquadrare all’interno del contesto della prima guerra mondiale.
Massacri e deportazioni di cui sarebbero stati oggetto le stesse popolazioni ottomane nel periodo tra il 1912 (inizio delle Guerre balcaniche) e il 1922 (fine della guerra di indipendenza), periodo durante il quale un decimo della popolazione anatolica di diverse origini etniche e religiose perse la vita in guerra o fu costretto ad abbandonare la propria terra.
Le autorità ottomane dell’epoca accusavano gli armeni di essere al servizio delle potenze cristiane nemiche; questi ultimi erano percepiti in Anatolia come la quinta colonna dell’impero zarista che ambiva ad estendere la sua influenza sino allo Stretto dei Dardanelli e usava gli armeni per meglio perseguire i propri scopi.
All’inizio della Grande guerra, i nazionalisti armeni vedevano nella vittoria russa un’opportunità per ottenere la costituzione di uno Stato armeno in Anatolia orientale. La propaganda russa incoraggiò questa aspirazione. Alcune migliaia di armeni si unirono all’esercito russo; altri disertarono l’esercito ottomano e organizzarono attività di guerriglia nelle retroguardie.
Il gruppo dirigente del Comitato Unione e Progresso, noto anche come movimento dei Giovani turchi, che nel frattempo aveva assunto le redini del governo dell’impero, alla fine del marzo del 1915, decise di trasferire l’intera popolazione armena della zona di guerra nella Siria meridionale e nella Mesopotamia. A queste deportazioni (ufficialmente chiamate trasferimenti – tehcir) fece seguito la morte di un altissimo numero di armeni, prevalentemente per violenze, assideramento, per fame e malattia.
Quella tra Turchia e Armenia è una delle controversie di più antica data.
La versione ufficiale, accettata dalla maggioranza degli storici turchi, minimizza le conseguenze delle deportazioni e dei massacri, sostenendo che tutte le popolazioni dell’Impero, musulmane e non, patirono le conseguenze di un conflitto distruttivo e devastante. Secondo costoro, le cifre dei morti sarebbero state gonfiate dalla propaganda armena, non si tratterebbe di un milione e mezzo di morti, bensì di 200 mila. La ragione della discrepanza, propaganda a parte, sta nelle diverse stime del numero degli armeni che vivevano nelll’Impero prima della guerra e nel numero di quelli che emigrarono. La cifra più probabile secondo autorevoli storici, tra i quali Erik Zürcher, è tra i 600 mila e gli 800 mila morti.
Ne è seguito un dibattito molto acceso tra gli studiosi, alcuni dei quali come Bernard Lewis e Justin McCharty, sono stati accusati di negazionismo. A costoro si contrappongono coloro che hanno assunto una posizione favorevole al riconoscimento del fattore genocidiario, come Halil Berktay, e Selim Deringil. Grazie a questi ultimi, oggi la tragedia armena comincia ad essere trattata in maniera più obiettiva.
Fu proprio grazie all’avvio del negoziato di adesione all’Unione europea nel 2005 che a partire dal settembre di quell’anno le cose incominciarono a cambiare, con la prima conferenza organizzata dall’Università del Bosforo e poi con quella della Bilgi University di Istanbul sulla questione armena negli ultimi anni dell’Impero Ottomano.
Il momento di svolta del dibattito sul genocidio si verificò dopo la barbara uccisione avvenuta per mano di un estremista della destra nazionalista, il 19 gennaio del 2007, dell’intellettuale antifascista Hrant Dink, armeno di Turchia. Il sacrificio di Dink ruppe un tabù: l’opinione pubblica turca scese in piazza urlando lo slogan «siamo tutti armeni» e il 20 gennaio scorso lo stesso primo ministro Davutoğlu ha avuto parole di cordoglio e di condanna per quella uccisione.
Oggi della questione armena, di genocidio o massacri, si parla apertamente: sono stati pubblicati libri e prodotti film su questa immane tragedia e le vittime del 1915 vengono commemorate ogni anno il 24 aprile ad Istanbul e in tante altre città della Turchia.
Si tratta di un cambiamento radicale, di una accresciuta consapevolezza di quegli eventi e di una accresciuta maturità democratica.
Ankara e Yerevan devono costruire un futuro comune e riannodare le relazioni diplomatiche che si erano interrotte a seguito dell’occupazione armena del Nagorno-Karabakh, un territorio conteso con l’Azerbaigian, paese con cui Ankara ha strettissime relazioni anche per motivi di affinità etnica. E per la rivendicazione da parte di Yerevan di un’area della Turchia orientale. Vi era stato grande ottimismo con la firma dei Protocolli di Zurigo, il 10 ottobre del 2009, in cui venivano peraltro previste misure volte a far pervenire a una lettura condivisa degli eventi della prima guerra mondiale nell’Impero Ottomano. Come sappiamo, quel negoziato nell’aprile 2010 è stato congelato dall’Armenia che ha posto di nuovo come precondizione per lo stabilimento di normali relazioni diplomatiche il riconoscimento da parte turca del cosiddetto «genocidio».
Occorre guardare avanti e adoperarsi per il completo superamento di ogni contrapposizione tra popoli e minoranze diverse nell’area, al fine di creare le condizioni, nel rispetto dell’integrità territoriale dei due Stati, per la pacifica convivenza e la corretta tutela dei diritti umani nella prospettiva di una più rapida integrazione della Turchia e dell’intera regione nell’Unione europea.
Mariano Giustino
(da Cronache del Garantista, 24 aprile 2015)
Mariano Giustino è direttore della rivista Diritto e Libertà; giornalista e analista politico, esperto di problematiche politiche e sociali della Turchia; collaboratore di Radio Radicale. Vive dal dicembre del 2009 ad Ankara (marianogiustino@dirittoeliberta.it).