Venerdì , 22 Novembre 2024
VIGNETTA della SETTIMANA
Esercente l'attività editoriale
Realizzazione ed housing
BLOG
MACROLIBRARSI.IT
RICERCA
SU TUTTO IL SITO
TellusFolio > Bottega letteraria > Cercando l'oro della poesia
 
Share on Facebook Share on Twitter Share on Linkedin Delicious
Fabiano Alborghetti trova Stefano Lorefice 
Cercando l'oro 7
Stefano Lorefice
Stefano Lorefice 
07 Novembre 2006
 
 
Dopo tanto girovagare per l’Italia, eccoci approdare in una terra che sento speciale perché è la terra per cui qui e ora sto scrivendo, la Valtellina, terra natia di Stefano Lorefice, nato a Morbegno nel 1977.
 
Parlare della poesia di Stefano Lorefice vuol dire iniziare dalla sua prima pubblicazione, Prossima fermata Nostalgiaplatz (Clinamen, Firenze, 2002), spostarsi al successivo Budapest swing lovers (Edizioni Clandestine, Marina di Massa, 2004) per arrivare al romanzo Cosmo Blues Hotel (Edizioni Clandestine, Marina di Massa, 2004) ed approdare infine al suo più compiuto lavoro poetico, l’ultimo: L’esperienza della pioggia (Campanotto, Pasia di Prato UD, 2006).
Per capire come il percorso poetico di Stefano Lorefice sia arrivato alla compiutezza dell’ultimo lavoro, inizierei - a dire il vero - proprio dall’inizio, incarnandomi con le variazioni musicali che hanno modellato il linguaggio della poesia: in Prossima fermata Nostalgiaplatz la scrittura di Stefano è algida, fluttuante, come un neon in accensione. L’intero libro è composto come fosse un album di Jazz. Tutti i titoli sono in Inglese tranne uno che darà il titolo all’intera silloge. Ogni titolo è anche il “movimento” che guiderà il testo. È una scrittura palesemente notturna, fatta di sovrapposizioni e silenzi, di sottrazioni di parole e di lasciti metropolitani, di presenze – due nella fattispecie – che dialogano per sola voce di Stefano. Prende atto una rottura, una fine relazione che s’incunea nello sperdimento emozionale, in uno stordimento anche, che decorre tra short-cuts cinematografici e flashback. Tutto il libro è un lungo film in bianco e nero e diretto verso una partenza sinonimo anche dell’addio.
 
Ancora il Jazz, ancora la costruzione “ad album” nel successivo Budapest swing lovers che porta sia una nota di Ansgar Lissy, che una prefazione di Alberto Ghiraldo.
Come nel libro precedente, i titoli delle poesie sono in Inglese come a indicare i titoli/movimenti della poesia/musica e, come nel precedente, accadono inserti in altre lingue all’interno dei testi che qui però divengono più evidenti: spagnolo (pp. 11 e 22) francese (pp. 23) inglese (pp 43) a sottolineare il nomadismo anche intellettuale dell’autore indicato per altro anche dalla citazioni di città come parte integrante del percorso-scorrimento notturno dei testi (e si legge di Milano, Malaga, Parigi, New York, Praga…).
Ancora, come nel libro precedente la punteggiatura è assente e i periodi sono marcati/definiti dall’a-capo. È il proseguo ideale - questa seconda pubblicazione - di quanto iniziato con Prossima fermata Nostalgiaplatz.
Situazionismo, evocazioni per flashback. Qui però il verso è più rilassato: a differenza della prima pubblicazione nettamente più lisergica, fosforica ed acre, qui c’è meno elettricità. Apparentemente vi sono solo situazioni vissute in interno notte ma l’esterno convive, emerge per sprazzi a fare da ricordo o contorno. È però sempre accessorio.
Prende atto inoltre, una dicotomia sesso-sentimento. Quest’ultimo viene evocato senza destinazione mentre il sesso è straniazione, fruizione di una parentesi spesso malinconica o meccanica.
Proseguendo nelle vicinanze col precedente libro, la voce è sempre affidata ad un dialogo dove si presumono intersezioni con altri. A mio avviso è invece un dialogo/monologo quello che è in corso, un flusso alogico e frammentario di pensieri/immagini/sensazioni che trova poi campitura e compimento in un monologo da e verso l’autore, essendo egli stesso emittente e ricevente del messaggio.
 
Un’apparente stacco avviene nello stesso anno della pubblicazione di Budapest swing lovers: Lorefice pubblica il romanzo Cosmo Blues Hotel che riprende però a piene mani il discorso linguistico iniziato e consolidato con le due pubblicazioni di poesia. È l’acme, l’apogeo del linguaggio che Lorefice ha affinato con un percorso netto e diritto, un filo a piombo senziente e popolato del proprio microcosmo.
Apparentemente il libro sembra suddiviso in racconti brevi e secchi. Sono invece capitoli, spaccati dalla visione pop di una città che viene maneggiata con punti di vista caleidoscopici (più di una visione qui e non più l’individualità precedente. È pluralità martellante) e gli esterni questa volta presentati anche in notturna ma più spesso in una luce immediata, vivida e colorata. Accecante.
Concessioni ce ne sono poche: i personaggi che motivano ed agiscono in ogni racconto sono sé stessi sino al limite del disturbo emotivo o della brutalità. Non ci viene chiesto di accettarli, vengono invece posizionati senza mediazioni con comportamenti, con il sesso consunto e di consumo casuale. Il sesso è una delle quinte che compongono l’enorme apparato scenico dietro cui si nascondo e da cui appaiono i personaggi evocati. È anche l’indicatore barometrico della generazione cui il libro fa riferimento: l’ambiente universitario contemporaneo di studenti in trasferta, di studenti residenti, del melting pot (fluido) che gravita attorno all’Istituzione. È una casistica conflittuale quella affrontata, col graffio della scrittura veloce. Ci sono nomi (in chiaro o per soprannome) e luoghi. Situazioni (lavoro precario). È un patteggiamento quello in corso in bilico tra dipendenza (dal denaro) e costrizione (al lavoro od alla rinuncia). È il turpiloquio come normalità del linguaggio, è l’uso del gergo come accezione definitiva ed integrante del linguaggio spesso cinico (o disincantato).
Quello che nell’apparato dell’interezza rimanda al vasto quadro del cosmo contenitivo è visibile come l’analogia con un corridoio d’albergo su cui affacciano le varie porte: ognuna cela una storia e ci si muove all’interno del corridoio come fosse uno spazio trascendente ed irreale, una spazio di passaggio sfiorante l’estraneità del non luogo (dell’età?)
Ancora una volta è la musica a guidare/imporre la marcia. I titoli dei capitoli sono in Inglese e sono le tracks dell’album (o le denominazioni delle porte). L’unico titolo in Italiano sarà il titolo del libro.
La voce meno ascoltata (perché soffocata dai rumori e dalle presenza), eppure più rilevante – e che si ricollega alla tematica portante delle precedenti pubblicazioni – è la solitudine la cui esposizione assoluta ed inesorabile accadrà solo nell’ultimo capitolo, quello più marcatamente individuale, dove sarà la sola voce dell’autore/personaggio a resistere e chiudere l’esistenza del luogo/albergo spegnendo la luce, consegnandoci al silenzio della notte, all’attesa della mattina dopo.
 
Quel mattino dopo avviene grazie alla pubblicazione, nel 2006, de L’esperienza della pioggia. Stacco più netto da quanto creato in precedenza non poteva avvenire: il verso si allarga, vengono dimessi del tutto glia artifici guida che cosi prepotentemente hanno marcato il linguaggio e la composizione dei passati scritti.
I titoli sono spariti (la titolazione nell’indice riprende infatti il primo verso del testo e comunque avviene in Italiano), tutto è ripulito, lasciato all’essenzialità – calda – della parola poetica.
I versi respirano, dimettendo quella forma di frammentazione presente nella lisergia al neon dei libri antecedenti, cosi come cambia l’estensione dei testi: alcuni ritrovano la brevità consueta, altri invece ridiscendono la pagina permeandola ma non è prolissità, attenzione! è invece il discorso che abita il dettato e che rinuncia all’allegorica brevità evocativa dello spezzettamento.
Il libro trova corpo in due sezioni che sono poi l’andamento della pubblicazione: corpo/città e corpo/frontiere. La pacatezza del verso, la visione (solo apparentemente intimista) è riversata nel confronto con l’esterno proprio come un fiato non più trattenuto dai polmoni: è l’aria dell’esterno che permane e all’interno di quell’aria viene appoggiato il respiro (e lo sguardo), non è più il processo inverso (dove l’esterno viene portato all’interno per essere metabolizzato, cambiato). Ancora: il dialogo – ancora presente – diviene uno scambio. Anche qui l’innovazione non è più l’accerchiamento del dettato. Accade uno scambio, il tono si fa più colloquiale e meno mascherato. Dimessa l’involuzione ecco aprirsi il confronto, la pluralità. La musica proveniente dall’esterno (mimesi e camuffamento) viene spenta (non ve ne è mai alcun accenno). E’ cosi che viene regalato il silenzio, il parlare col coraggio/affermazione della propria presenza che non richiede più il mascheramento ma che si svela limpidissima e finalmente capace di fermare, in piedi fermare alzando lo sguardo, valicare quel fatidico impedimento (cosi precisamente esposto da Leopardi ne l’infinito: Ma sedendo e mirando, interminati/ Spazi di là quella, e sovrumani/ Silenzi, e profondissima quiete…). Qui lo sguardo è oltre la siepe, già immerso nell’immensità dove è dolce naufragare.
È uno sguardo capace di ascolto e che l’ascolto trova al centro del ritrovato silenzio.
 
 
 
da Prossima fermata Nostalgiaplatz
 
third floor rendez-vous
 
vuota
di un trasparente accento francese
J&B nel bicchiere
persa
o semplicemente ritrovata
un po’ più in là
conti i piccoli cristalli bianchi
la tua pelle
andiamo di là si sta più comodi
i tuoi occhi pescano profondo
sotto i ricordi
 
 
don’t say a word
 
stavo pensando che non mi piaci poi cosi tanto
si scopi bene
ma l’approccio non è sincero
un passo sulle scale e sono stanco
forse è quello il problema
una riduzione di spazio fra quello che vuoi e ciò che facciamo
 
 
blue neon lights
 
scatta l’interruttore
il caffè è freddo
la frequenza di visione disturbata
stavolta non richiamo
un momento che riavvolge gli istanti
ridisegnando la linea
what do you feel?*
I doesn’t matter…*
*che cosa senti?
*non importa
 
narwhal
 
te ne andrai respirando appena
ti lascerai dietro il sapore delle maree
l’intensa solitudine che ritorna…
 
 
dressing room 77
 
ti sei sistemata il vestito
poi un sorriso
imbarazzata
di fretta
il rossetto
l’eye-liner
li in penombra
io ancora
non capisci?
Ci annienta il profilo di questa stanza
Ormai vuota
 
 
spiral movement
 
sfumare le luci
vaghe figure
lontano
spine
dissolversi di sguardi
consueto naufragare di sentimenti
deserti immensi
cieli immobili
malinconia d’acque chiuse nell’oceano
deriva a svanire
distanze a dismisura
incessante
 
 
fine dust clouds
 
l’ultimo pensiero
è diventato rumore
la stanza sembra sfumare oltre la porta
un movimento nuovo
concentra la sensazione di essere ovunque
in this endless room *
fine dust clouds *
*in questa stanza senza fine
*nuvole impalpabili di polvere
 
 
 
da Budapest swing lovers
 
in your room
 
Pelle
Poche sensazioni di una routine
Di un non-fare libero
Pelle
la tua
sotto la doccia
Parigi è tutta li fuori
 
 
rainy day theme
 
forse non è più la mia condizione rilassante dell’abban-
dono )
ho poggiato la fronte alla finestra
per sentire il freddo della pioggia fuori
 
 
clock for the lovers
 
3:47del mattino
assurdo
credo di aver scomposto al massimo
le possibilità di queste ultime ore
le soluzioni sono tutte lì
una migrazione d’eccessi
tu ascoltami
ho da dirti che mi sei mancata
si sta soli
quando si scrive davvero
 
 
you know what I miss the most?
 
il disinteresse di un abbraccio lontano
lungo il lago è l’inverno
poche frasi scambiate con cura
un nuovo sentimento che osserva i passi sulla neve
una bellezza forte
intensa
pelle d’ambra
sei il pensiero che dipinge l’aurora negli occhi
sei tutte le Budapest che ho sognato
 
 
someone else?
 
il contorno che hai dato al tuo smalto è nudo
un bacio
soggetto fuori campo di una scopata
fluidità di qualche sigaretta
 
 
evanescence
 
forse i viaggi concluderanno i ritorni
i laghi conosciuti
l’ora esatta di ogni tramonto
 
 
 
da Cosmo Blues Hotel
 
( Rip-off artist...free jazz version )
 
Quattro giri di chiave e una botta nel punto giusto.
Ci vuole un pò di culo, ed anche questa notte entro nel mio monolocale.
Fermata Piola, linea 2, un posto di merda.
Tre del mattino.
A Milano la luce non manca mai, è li a farti capire che sei ancora vivo sul pianeta.
Che tu lo voglia o no.
Alle spalle tutti i lampioni, tutte le fermate della metro senza scendere.
Ero arrivato all’ultima, poi indietro fino a non capire più, fino a credere solo ad ogni momento che portava in superficie.
Volevo vedere dove andavano le corse della mezza, e chi c’era giù in fondo alla linea verde.
Fumato al limite.
R.i.p. e Nadia stanno dall’altra parte della città. Vogliono dormire da me.
A quest’ora i tassisti corrono e i tipi come noi li evitano senza pietà.
I soldi sono finiti da circa quattro ore.
Lo chiamo R.i.p. perchè una notte è arrivato da me bianco come un cadavere. Mi sono spaventato a vederlo cosi trasparente.
Un tizio di colore aveva tentato di ingropparselo.
(...)
 
 
( Pack post magazine )
 
Treno Milano_Tirano, venerdì.
Un sacco di studenti tornano in valle per il week-end.
L’università stoppa fino a Lunedì.
Come sempre, A. va a finire che arriva all’ultimo momento.
Io corro, magari trovo un buco dove sedermi; poi faccio sedere lei cosi ci rimedio pure una bella figura.
Forse c’è qualcuno del mio corso che tiene occupati dei posti, e se mi va di culo un A. del mio corso, visto che c’è Scienza Naturali ci sono un sacco di ragazze.
Se quelle mi vedono con A. sicuramente pensano che in fondo non deve essere male, visto che una tipa del genere stà con me.
Una questione di pubblicità progresso.
(…)
 
Ogni donna ha un angolo di vanità.
Ogni donna ha almeno tre posizioni che vorrebbe provare (tranne le chill out).
Ogni donna è pronta a negare queste tre cose.
 
Una volta che te ne sei reso conto non hai risolto proprio niente.
Finisce che le tre posizioni te le sogni e basta.
(…)
 
 
( Didgeridoo sound system )
 
Le mani gonfie, il freddo.
Sono tre ore che aspetto Raf per la roba.
S. Babila uscita est, oggi ho vomitato tre volte.
L’astinenza bastarda mi scava dentro.
La gente ha un aspetto più vero quando sei in crisi, ha una faccia meno sporca.
La società ti fa meno schifo, non la senti.
Il centro sei solo tu, la dose, gli spazi immaginari che ti separano dal buco.
Le sigarette non hanno più un effetto tranquillizzante, solo il vento che mi arriva diritto al collo mi tiene in piedi sveglio.
E’ un inverno bastardo, quasi come l’astinenza e le guardie.
Mi rimane poco in tasca, non ci arrivo a sera.
Tre pezzi da cinquanta per la roba.
La gente ti passa davanti ed a guardarla bene ti fa più schifo.
Disgusto, perché t’immagini che cazzo pensa.
Le donne salgono lungo le rampe parlando di moda, gli studenti si curano di te pensando ad un aspetto deviato della globalizzazione.
(…)
 
 
( Cosmo Blues Hotel )
 
(...)
Room 27
 
ero partito cosi, ricordo ancora la tangenziale ovest che mi allontanava.
Radio accesa, frequenza 97.3, o qualcosa del genere.
Trasmettevano un pezzo dei Tapir gets angry.
La Uno tirava i suoi centoventi come fossero gli ultimi.
Poi, tutte le cose che avrei potuto pensare a proposito di Praga.
Le partenze aumentano le distanze, poco altro.
Avevo due numeri di telefono, scritti di fretta.
 
Metropolitana di Parigi.
Angela mi guardava negli occhi.
Sarebbe partita il giorno dopo.
Praga è una città bella, almeno cosi si dice.
Quanto il tempo è poco, aumentano l parole che vorresti dire.
(…)
 
 
 
da L’esperienza della pioggia
 
 
Certe ferite che rimarginano
nell’insistere delle luci esterne/notturne
la città è nel pieno e resta
presto saranno i passanti
agli angoli
con un bisbigliare compatto
che non c’ tempo
e quel che rimane è diviso
come gli amanti nel farsi l’amore
senza mai dire abbastanza
per quel che sarebbe
sparsi soltanto
a rigare il fondo del cuore
 
 
Tutti compatti, vicini, schiacciati
in un pub che dà scampo solo ai più sorridenti
tra gli occhi di chi si conosce
e chi nuovo ha la voce più forte
che bisogna portare ciascuno un colore
e non pensare al freddo fuori
e chiedere d’altri
e lasciare fare ad altri ancora
non bisogna essere vecchi, sventolare certezze
ci si accontenta di stare
neanche troppo comodi
tra un sorriso e la musica che non interessa
che c’abbiamo grandi pianure dentro
e laghi
e abbracci
ma nascondiamo ancora le mani
per pudore
per proteggere l’interno più tenero
 
 
Bisogna arrossire
che in certi momenti il dolore ti strappa gli occhi
bisogna saper arrossire
tutto qua
sfogliare le pagine
annusarne gli angoli e il sale che resta al centro,
flettere i muscoli stanchi del ristagno
e portare fuori il gesto del braccio;
un movimento qualsiasi
con la pelle e quel che rimane del sonno,
perché c’è la necessità di un rapporto semplice
fra la parola “poesia” e la parola “corpo”,
un dovere comune
che non può stare nel fuori
è un dilatare dal dentro, dal più intimo amore
e “amore” è capire e sapere arrossire
che a volte il dolore te li consuma
gli occhi
 
 
Io devo restituire un bacio che mi spetta
il gelo fuori dai caffè, a Pigalle
io devo restituire la mia faccia vera
quella senza sconti
 
 
Ed io in queste valige ci metto tutte le maglie
anche quelle sfilacciate per il troppo correre
poi, un po’ degli scatti del mio ginocchio malandato
che se ne sta li
in basso a destra
e non mi fa mai troppo male,
che quasi mi ci affeziono
a questa parte di me che funziona meno
e reclama esistenza, cerca di risalire;
è una voce che si sporge dall’alto
è senza vertigine
e non ha regole chiare, giuste
da farmi capire
ne parole grandi da scrivere
ha tutto li: in basso a destra
che ci basta un po’ di sereno, a volte
e riapro le valigie
prendo le maglie, quelle sfilacciate
dai colori chiari
e ci riempio un ritorno
 
 
La schiena pulita, incisa dal sole
le parole cerchiate
scritte sulle gambe
sui miei passi sinceri
con tutte le distanze negli occhi
e le partenze
come il mio amore, che ha una punteggiatura a casaccio,
le caviglie legate
e nelle piccole strade i suoi veri muri
con tutte le ferite, le incrinature e il dialetto conosciuto
fatto di silenzi, di gesti rapidi,
di una cadenza sua, che ha radici da gente di lago
ch’ una faccenda di stomaco
che quando torno mi basta ascoltare
e a volte mi affaccio, annuso il profumo della pioggia
prima del temporale
 
 
Di Stefano Lorefice è anche possibile approfondire la lettura dei testi sul numero di Poesia di Novembre (nr. 210) grazie ad un attento editoriale a cura di Chiara De Luca che alcuni mesi or sono è stata proprio ospite di questa rubrica.
 
Fabiano Alborghetti
 
 
Negli incontri “Prove d'autunno” (2004), 'l Gazetin e LABOS Editrice hanno avuto ospite Stefano Lorefice all'uscita del suo romanzo Cosmo Blues Hotel (Morbegno, Museo civico di Storia naturale, 11 dicembre 2004).

Foto allegate

L
Budapest swing lovers
Cosmo blues hotel
Prossima fermata
Articoli correlati

 
 
 
Commenti
Lascia un commentoLeggi i commenti [ 1 commento ]
 
Indietro      Home Page
STRUMENTI
Versione stampabile
Gli articoli più letti
Invia questo articolo
INTERVENTI dei LETTORI
Un'area interamente dedicata agli interventi dei lettori
SONDAGGIO
TURCHIA NELL'UNIONE EUROPEA?

 70.7%
NO
 29.3%

  vota
  presentazione
  altri sondaggi
RICERCA nel SITO



Agende e Calendari

Archeologia e Storia

Attualità e temi sociali

Bambini e adolescenti

Bioarchitettura

CD / Musica

Cospirazionismo e misteri

Cucina e alimentazione

Discipline orientali

Esoterismo

Fate, Gnomi, Elfi, Folletti

I nostri Amici Animali

Letture

Maestri spirituali

Massaggi e Trattamenti

Migliorare se stessi

Paranormale

Patologie & Malattie

PNL

Psicologia

Religione

Rimedi Naturali

Scienza

Sessualità

Spiritualità

UFO

Vacanze Alternative

TELLUSfolio - Supplemento telematico quotidiano di Tellus
Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
Sede legale: Via Fontana, 11 - 23017 MORBEGNO - Tel. +39 0342 610861 - C.F./P.IVA 01022920142 - REA SO-77208 privacy policy