L’alluvione di Firenze del ’66 con l’Arno che spazza via capolavori cose e persone ha lasciato il posto ad un’altra alluvione di commenti, volanti, di immagini, sempre le solite, di testimonianze di chi non c’era e con esse si fa bello: i politici. In questa melma, mediaticamente più pericolosa a volte di quella reale di un tempo perché semplifica e banalizza tutto in una cartolina piangiolente e soddisfatta (e come si “vede” la letteratura più melensamente popolare ora abita la televisione al posto dei romanzetti rosa, anche riguardo alla storia nazionale), Tellusfolio offre ai suoi lettori- navigatori, un approfondimento, in questo caso narrativo e di chi c’era davvero, con foto, tre, inedite, di Alessandra Borsetti Venier che a Firenze allora arrivò per aiutare gli alluvionati e che qui venne a vivere inventando la sua casa editrice. www.morganaedizioni.it
Nella lettera che accompagna questi Ricordi leggo anche: (...) «L’Arno - scrive Sandro Bennucci autore nel 1986 del libro Caro Arno... - è un torrente con sfrenate ambizioni di fiume. Prende acqua da una sola montagna: quando piove sul Pratomagno l’Arno si gonfia, quando non piove l’Arno va in secca. È così da sempre...» Dalle carte dell’Autorità di bacino si può calcolare che un’altra alluvione come quella del 1966 provocherebbe danni materiali per 30 miliardi di euro, ossia un’intera finanziaria. Per questo è indispensabile trovare i finanziamenti almeno per lo “stralcio” del piano di bacino. Senza aspettare oltre. Intanto, ci accontentiamo con un po’ di spettacolare e "costosa" retorica (...) Curiosità: gli "angeli del fango" sono stati schedati in ben due liste ufficiali (per i Georgofili e per la Biblioteca Nazionale); invece, i "non-angeli nel fango", molto più numerosi, rimangono - orgogliosamente - senza lista e senza allori!
Claudio Di Scalzo
RICORDI DI UN NON-ANGELO NEL FANGO
Vivevo allora a Sacile, nel Friuli. La notizia che Firenze era allagata non mi fece resistere all’idea di partire subito per dare una mano. Arrivai la sera tardi del 4 novembre. Ai miei avevo detto che andavo da un’amica, per non preoccuparli.
Non conoscevo per niente la città, ma avevo una guida del Touring che, ovviamente, non ho mai aperto. Alla stazione seguii una ragazza che mi portò a dormire in un vagone. Ascoltai i racconti di alcuni ragazzi che avevano assistito per tutta la giornata alla catastrofe: l’acqua ormai aveva invaso anche l’ultimo ponte, quello di San Niccolò, e la città era divisa in due, isolata e irraggiungibile. Emozionati ma anche impauriti, ci confidavamo la voglia di fare qualcosa. Tutti avevamo voglia di aiutare, ma non sapevamo cosa fare e a chi chiedere.
La mattina dopo sembrava che la vita riprendesse dopo il diluvio.
Cercherò di mettere insieme frammenti di ricordi confusi…
C’era la consapevolezza di una tragedia in corso, ma prevaleva la confusione e l’improvvisazione. Nessuno ci diceva dove andare. Eppure non c’era tempo per pensare o per sentire freddo o fame. Luce, acqua e gas mancavano quasi ovunque. Un mare di acqua fangosa e puzzolente invadeva tutto e tutti. Non si dormiva più. C’era da aiutare chi aveva perso proprio tutto, specialmente gli anziani che non osavano chiedere niente.
Si diceva che in Questura si attendeva il momento in cui il prefetto desse l’ordine di mobilitare l’esercito, ma lo stato di emergenza non fu mai dichiarato. Non si capiva quali aiuti sarebbero arrivati e quando soprattutto. Finalmente, ma erano passati già diversi giorni, arrivarono i camion con migliaia di soldati con ruspe e badili. Lo Stato si mise all’opera e perfino la calcolò: 600mila tonnellate di fango furono rimosse dall’esercito!
Un senso di panico e di angoscia coinvolgeva tutti: si parlava di morti e feriti in numero indefinito. Intanto, ogni cosa sommersa rispuntava fuori con un colore uniforme: marrone con striature nere. Una visione apocalittica. Ma le attività di recupero fervevano ovunque, le ruspe e i camion cominciavano a liberare ampie zone di strade e piazze. Rimaneva il problema delle abitazioni, dei negozi, delle strade strette dove potevano farsi largo con pale e pazienza soltanto i volontari e i soldati.
Io avevo scelto di stare nella zona di San Niccolò dove un’anziana signora, Cristina, mi ospitava per dormire, al terzo piano, all’asciutto, perché riscaldarsi e ripulirsi dalla morchia appiccicata addosso utilizzando dell’alcool, dato che l’acqua corrente mancava, era davvero un’impresa. Le portavo le candele, e pane e latte che lei divideva con quattro gatti. Al primo piano c’era una macelleria che aveva il frigorifero spento da diversi giorni, e quando con il proprietario si riuscì ad aprirlo fu una scoperta raccapricciante. Per fortuna che qualcuno mi offrì una sorsata di qualcosa di alcolico!
Bisognava fare in fretta, vuotare le botteghe, ripulire le case perché potesse ricominciare la vita normale. Ricordo quando la signora Cristina mi disse di aver letto sulla Nazione che il Crocifisso del Cimabue era andato quasi del tutto distrutto, e che lei lo “conosceva bene” perché andava sempre alla messa in Santa Croce. Ne parlava angosciata, come se avesse perso un amico.
Molti anni dopo seppi la storia del recupero del Crocifisso direttamente dal figlio dello straordinario restauratore che coraggiosamente si dedicò a quell’impresa, considerata da tutti gli esperti del mondo, disperata e impossibile. Era Vittorio Granchi, pittore e decoratore, al quale ho pubblicato un libro monografico nel 1987 per conto dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze.
Mi piace sempre ricordare la solidarietà che univa tutti; credo fosse la perdita del senso della proprietà e la mancanza di desideri a renderci così liberi: prima di tutto, cittadini di un luogo da salvare!, che poteva essere qualsiasi luogo.
È così che Firenze è diventata la città dove, pochi anni dopo, ho scelto di tornare a vivere. E proprio vicino a San Niccolò.
Alessandra Borsetti Venier
2 novembre 2006