Andrea Dall’Asta
La croce e il volto
Percorsi tra arte, cinema e teologia
Ancora, 2015, pp. 236, € 30,00
Tutte le testimonianze scritte sulla fine della vita terrena di Gesù sono concordi nel dichiarare che egli è morto in croce. Per le sante Scritture questa è la morte del maledetto da Dio («Maledetto chi pende dal legno»: Dt 21,23: Gal 3,13), appeso tra cielo e terra perché rifiutato da Dio e dagli uomini.
Proprio la croce, simbolo più terribile e umiliante conosciuto all’interno della società romana, accogliendo su di sé Gesù Cristo è divenuta il punto culminante della storia di salvezza di Dio con l’umanità, l’evento in cui avviene la rivelazione definitiva del volto di Dio: davvero la croce è teologa! La croce è il segno della responsabilità illimitata di Dio nei confronti dell’umanità peccatrice.
La raffigurazione di Cristo crocifisso è stata per la teologia e l’arte il luogo per eccellenza in cui cercare di rivelare il «vero» volto di Dio. In una costante dialettica tra gloria e kenosi. Nei primi secoli si preferisce mostrare il Cristo glorioso trionfante sulla morte come un capo vittorioso. Dall’epoca medioevale si mette in scena il dramma di Gesù sofferente, deforme, colto nell’ultimo spasimo, il cui volto sfigurato rivela le lacerazioni di un’umanità in attesa di una redenzione. E oggi, come si può interpretare e rappresentare l’evento della croce? Andrea Dall’Asta nel suo ultimo libro La Croce e il Volto, ricostruisce questi complessi passaggi in una serie di “percorsi” tra arte, cinema, filosofia e teologia che si distendono sull’arco di due millenni, fino a mostrare le modalità inedite e sorprendenti con cui il linguaggio artistico contemporaneo esprime il messaggio provocatorio della Croce, svelamento dello splendore del Volto di Dio e dell’uomo.
Nei primi secoli della Chiesa, anche quando non si rappresenta il corpo di Cristo, la croce è simbolo di vittoria, sormontata dal crisma, dal monogramma di Cristo, con le lettere greche X e P. Circondata da una corona, è emblema della vittoria, come la croce conservata ai Musei Vaticani.
Così avviene nel piccolo mausoleo di Galla Placidia a Ravenna (V secolo). La croce è simbolo eterno e cosmico di Gloria, del principio di tutte le cose. È crux splendidor cunctis astris, la più splendente di tutte le stelle, che irradia la sua luce al cuore della notte. La croce vittoriosa, posta sulla sommità della cupola e circondata dai quattro viventi che ne diffondono il messaggio nel cosmo, riconduce tutto all’unità tra cielo e terra, tra finito e infinito, trasformando lo spazio in un luogo soprannaturale, in cui nessuna legge terrena ha più alcun corso. Così, nella chiesa di Santa Maria Antiqua a Roma è mostrato il Christus triunphans. Superando il simbolismo paleocristiano, il Crocifisso, un corpo, entra nella storia. Una calma solenne abita tutta la composizione. La figura di Cristo, di maggiori proporzioni rispetto a quella degli altri personaggi, domina la composizione. La croce puntellata da tre cunei, è saldamente ancorata alla roccia.
Il Crocifisso, posto alla confluenza di due montagne, è perfettamente verticale. È l’axis mundi, l’asse del cosmo, origine di senso dello spazio che si organizza attorno a lui. L’albero della vita. Con la sua morte è avvenuta la riconciliazione tra cielo e terra. Cristo non è appeso alla croce, ma in piedi, si erge come un re vittorioso, pieno di dignità. La croce è il luogo della vittoria. Cristo è vivo e trionfante, ha già vinto il dolore e le tenebre della morte. Il suo corpo è già glorioso, risorto. Cristo è il vivente. È il Principe della vita. Il suo sguardo è rivolto al fedele, per infondergli fiducia. Cristo indossa la veste sacerdotale, un colobium color porpora, di origine siriana, senza maniche: egli è il sacerdote eterno, mediatore tra Dio e gli uomini, colui che permette l’accesso al Padre.
La dialettica tra Cristo trionfante e Cristo sofferente sarà sempre presente nelle rappresentazioni rinascimentali. La tradizione italiana interpreta l’iconografia del Christus patiens alla luce di una bellezza armonica, collocando l’evento della croce in un contesto di armonia e di pace, che esorcizza l’elemento fortemente drammatico.
L’interpretazione del Crocifisso come Deus absconditus sarà elaborata soprattutto in ambiente nordico. Un caso esemplare è il celebre pannello della Crocifissione del pittore tedesco Matthias Grünewald, inserito al centro del polittico dell’altare dei monaci Antoniti di Isenheim, una delle immagini più potenti della fede cristiana. La morte si presenta qui in tutto il suo orrore. Il Crocifisso campeggia gigantesco nella scena, morente, immenso e terrificante. Il suo corpo è deforme, ripugnante. Il suo volto, coronato di spine, sembra ancora lottare con la morte. Le palpebre degli occhi sono chiuse. Con realismo spietato, Grünewald presenta un uomo moribondo. Il suo petto è dilatato, come per l’ultimo sforzo di un respiro, prima della morte, le labbra livide e tumefatte, il suo ventre è inarcato, Cristo è sfinito, di fronte all’abisso.
Anche nel Novecento il corpo, diventando soggetto dell’opera, si fa luogo della testimonianza dell’artista, del suo messaggio, della sua missione nella società. Non è più semplicemente rappresentato, ma si fa attore, protagonista, è messo in scena, come nella performance.
Per Francis Bacon, la tragedia non lascia nessun spiraglio alla leggerezza. Se nella Crocifissione di Grünewald il corpo di Cristo era deforme, tutto in Bacon parla di lacerazione, di crudeltà, di incomunicabilità, di solitudine e, al tempo stesso, di rivolta sofferta. Bacon riesce a dare forza all’esistenza dei suoi personaggi sia pure in situazione di immobile e corrosiva contorsione.
Il Novecento non cessa di studiare, analizzare e interpretare la figura di Cristo. Con l’incarnazione, la storia di Dio diventa storia dell’uomo. Cristo entra nelle vicende umane, perché l’uomo possa riconoscerlo nel suo cammino, nell’incontro con gli altri, si rende così presente nella concretezza del quotidiano, anche attraverso figure che, senza immediatamente identificarsi con lui, sono assimilabili alla sua persona, a partire dalle esperienze di violenza e di dolore subite.
Un esempio sono i lavori del pittore francese Georges Rouault (1871 – 1958), e in modo particolare la celebre sequenza di acquetinte del Miserere (1917 – 1927). L’opera è una protesta contro l’ingiustizia, la violenza dell’uomo, la corruzione, il degrado morale, denuncia lucida e disincantata della condizione umana.
Nell’ultima parte del libro Andrea Dall’Asta fa un interessante excursus su “Cristo e l’evento della croce nel cinema”. Molta storia e molti gli esempi narrati in questa sezione del volume.
Toccante è il ricordo del film La dolce vita (1960), grande affresco sul vuoto della contemporaneità. Fellini stesso spiega come la realtà della Grazia sia presente nella vita dell’uomo, in riferimento all’ultimo episodio. All’alba, una fanciulla, Paolina, trasmette segni al protagonista, Marcello, che non capisce, e gli dice parole che egli non può comprendere per il rombo del mare. Con il sorriso in primo piano della giovane ragazza si chiude il film. Secondo le parole dello stesso regista riportate dal gesuita Nazzareno Taddei che gli chiede che cosa sia la Grazia, Fellini risponde: «Che cos’è la Grazia se non quella realtà come Paolina, che tu non capisci e la rifiuti, ma lei sorride e ti dice: “Vai pure! Mi troverai sempre ad aspettarti”?» La Grazia si offre nella dolcezza di un sorriso. Come se Cristo potesse farsi presente attraverso il volto innocente di una fanciulla… Si chiude in questo modo la sequenza iniziale del film, la discesa della statua in gesso di Cristo benedicente portato dall’elicottero. È il Cristo che scende nel mondo degli uomini, ma resta inascoltato nelle pieghe dell’oscurità umana.
Maria Paola Forlani