A proposito di libertà di espressione:
un ricordo di Naji al-Ali, vignettista palestinese
Nel pomeriggio del 22 luglio 1987, a Londra, mentre percorreva i pochi metri che separavano la sua auto parcheggiata e la sede di Al-Qabas, il giornale kuwaitiano per cui lavorava, Naji al-Ali viene ferito alla testa da un colpo di arma da fuoco. Morirà una settimana dopo, all'ospedale St Stephens di Londra, a 49 anni. L'assassino vestiva abiti civili e passeggiava tranquillo nei paraggi. Dopo aver eseguito l'ordine del suo mandante, è scomparso nel nulla.
Un amico di Naji al-Ali ricorda che il vignettista era stato minacciato di morte da un esponente di spicco dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) due settimane prima del suo assassinio. La telefonata era arrivata dopo la pubblicazione di una sua vignetta su un'amica della guida dell'Olp Yasser Arafat. «Devi correggere il tuo atteggiamento», gli aveva detto, «non dire nulla contro le persone oneste, altrimenti avremo il compito di tagliarti fuori». Un monito rimasto inascoltato. Ma l'ipotesi che a uccidere il vignettista siano stati sicari mandati dall'Olp risulta alquanto improbabile (nonché la più banale).
Dieci mesi dopo la morte di Naji al-Ali, Scotland Yard ha arrestato Ismail Suwan, studente palestinese di Gerusalemme, che, durante l'interrogatorio, ha rivelato di essere un agente del Mossad, il temibile servizio di intelligence israeliano. Quest'ultimo, tuttavia, ha rifiutato di comunicare all'omologo britannico qualsiasi informazione sull'accaduto. In tutta risposta, l'allora (altrettanto temibile) primo ministro Margaret Thatcher ha espulso due diplomatici israeliani, chiudendo la base londinese del Mossad, che tuttavia ha continuato a far viaggiare i suoi agenti con passaporti falsi di altre nazionalità, compresa quella britannica. Malgrado gli arresti di Scotland Yard e l'inchiesta del MI5, l'identità dell'assassino di Naji al-Ali non è mai stata rivelata.
Naji era nato nel 1937 ad al-Shajara, un villaggio nei pressi di Nazareth. È stato una delle vittime della nakba, la “catastrofe” del 1948, ovvero l'espulsione delle popolazioni arabe dalla Palestina, avviata dalla Dichiarazione di Balfour del 1917 e intensificata tra gli anni '40 e '50 dalle autorità di Tel Aviv.
Quando Naji aveva 10 anni, la sua famiglia si è rifugiata nel campo profughi libanese di Ain al-Helwa. Qui ha avuto inizio la sua carriera artistica. Il disegno, ha spiegato lo stesso vignettista, era “una forma di espressione politica”, inizialmente utilizzata durante le ripetute detenzioni nelle carceri libanesi. L'intelligence di Beirut, il Deuxième Bureau, lo fermò più volte, nel quadro delle misure adottate dal governo locale per reprimere l'attività politica nei campi profughi. Tra i primi a riconoscere il suo talento (inizialmente espresso sulle mura delle celle), lo scrittore palestinese Ghassani Kanafani, ucciso nel 1972 a Beirut dal Mossad, lo incoraggiò a proseguire la sua carriera pubblicando alcune sue vignette sulla rivista giordana Al-Hurria, di cui era direttore.
L'invasione israeliana del Libano, nel 1982, costrinse la famiglia di Naji a lasciare il campo profughi libanese. Dopo diversi spostamenti, il vignettista si stabilì in Kuwait, dove iniziò a lavorare per il quotidiano al-Qabas. Minacciato di morte, nel 1985 viene infine trasferito nella sede londinese dello stesso giornale.
In un'intervista, Naji aveva detto che “i poveri sono coloro che soffrono, sono condannati al carcere e muoiono senza lacrime”, ma a consegnarlo alla storia è stato quel bambino di nome Handala, sempre raffigurato di spalle. «Io sono un bambino», gli ha fatto dire, «mi chiamo Handala. Non mostrerò il mio viso finché la Palestina non sarà libera e in pace».
L'idea gli era venuta in Kuwait e di lui diceva: «nato a dieci anni e avrà sempre dieci anni, è a questa età che ho dovuto lasciare la mia terra. Quando Handala tornerà in Palestina avrà sempre dieci anni e solo da allora inizierà a crescere. Le leggi della natura non si applicano a lui, poiché è un'anomalia, come è anomalo perdere la propria patria. Quando tornerà in Palestina, quando io tornerò in Palestina, tutto ridiventerà normale».
«Ho creato questo personaggio per simboleggiare la mia infanzia perduta», ha spiegato, «questo bambino, come potete vedere, non è bello né viziato, e neppure ben nutrito. È scalzo, come molti bambini nei campi profughi. L'ho adottato perché è affettuoso, onesto, schietto ed è un barbone. Le sue mani dietro la schiena sono un simbolo del rifiuto di tutti gli eventi negativi nella nostra regione».
Carlotta Caldonazzo
(da Free Lance International Press, 9 marzo 2015)