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Maria Paola Forlani. Il Demone della Modernità 
Pittori visionari all’alba del secolo breve
Unger,
Unger, 'Salomé' 
09 Marzo 2015
 

L’irrompere della modernità nel mondo tardo Ottocentesco e il suo deflagrare nei primi decenni del “secolo breve” sono il soggetto vero della mostra, aperta a Rovigo a Palazzo Roverella fino il 14 giugno 2015, a cura di Giandomenico Romanelli (catalogo Marsilio) dal titolo Il Demone della Modernità. Pittori visionari all’alba del secolo breve. Una modernità particolare, popolata da angeli e demoni, tra inquieto e ineffabile, tra conscio ed inconscio, tra prefigurazione di morte e destini di luce.

Il percorso della mostra appare come un viaggio verso l’ignoto. Le opere sanno dare forti emozioni ed accostare a vitalismi sfrenati, ambigui ed eterei straniamenti, incubi e sogni. Lo spettatore diventa come un viandante che percorre un universo, il cui cammino è selvaggio e vergine come ai tempi della Creazione, abitato da razze antiche come Titani, Giganti, Dei ed angeli barbuti. Sono mondi pieni di magia che si trovano negli anfratti più nascosti della campagna, nelle profondità marine e persino nei campi bianchi delle nuvole; talvolta visibili, talvolta no.

È un viaggio, pregnante, forte, carico di emozioni che accompagna nella profondità più oscura dell’inconscio e fa ascendere alle terse luminosità dello spirito. Spesso questi territori incantati, così ben narrati nelle opere degli artisti, erano scoperti da viandanti che ci capitavano sopra per caso. Ora il visitatore di passaggio svela e sveglia i vecchi spiriti dell’aldilà. Una voce nell’ombra domanda “È l’ora?”, e il visitatore, pieno di spavento, risponde: “Riposa, non è ancora il tempo”, restituendo al sonno il fantasma inquieto.

Assieme ad alcune irrinunciabili icone dell’universo simbolista, sono presenti opere che uniscono la suggestione del simbolo e la libertà visionaria e utopistica dell’ideale, facendo compiere allo spettatore un percorso teso tra scoperte di un’arte esclusiva e misteriosa e la rappresentazione drammatica e cruda, talvolta sommessa, della follia della guerra.

Ma, tra resistenze e cadute, quella che viene messa in scena è la irruzione di una modernità inquieta e tempestosa, prefiguratrice di morte non meno sfrenata celebratrice di un vitalismo tutto proteso verso nuove conquiste e nuovi miti.

Anche i linguaggi dell’arte si rinnovano tumultuosamente, infrangono gli schemi rigidi di ogni classicità, le tradizionali connessioni e relazioni spazio-temporali, introducono il movimento, le sonorità estreme, le contaminazioni tra generi.

Non si tratta di una narrazione sistematica: attorno a impareggiabili figure del mondo nuovo, ad angeli di un destino di luce e alle tenebre gelide e sulfuree che circondano il maledetto e il reietto, le nuove forme dell’arte spalancano orizzonti insospettati e fanno esplodere sopra le macerie del passato la potenza incontenibile e pur ambigua del moderno.

A raccontare, interpretare e vivere nelle loro opere queste emozioni sono grandi artisti europei: Franz Von Stuck, Leo Putz, Odillon Redon, Paul Klee, M. Kostantinas Ciurlionis, Max Klinger, Felicien Rops, Oskar Zwintscher, Sascha Schneider, Mirko Rački, Vlaho Bukovac e altri italiani: Mario De Maria, Guido Cadorin, Bortolo Sacchi, Alberto Martini, tra gli altri.

Le originali immagini di New York di Gennaro Favai dialogano in chiusura con il moderno cinema espressionista. Se la città industriale è il luogo simbolo della modernità (come già aveva visto Baudelaire, teorizzato da Walter Benjamin ed illustrato magnificamente da Proust) New York ne è l’incarnazione perfetta, come Metropolis di Lang e la Gotham City di Barman, il Cavaliere oscuro.

Raramente come negli anni magici tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e la Grande Guerra, letteratura, poesia e arti figurative si sono incontrate, sfidandosi attorno a temi e figure che da sempre hanno custodito un singolare incrocio di concetti e di forme dietro i quali si agitava una pressante ricerca del nuovo.

Un passato brulicante di seducenti e variegate suggestioni letterarie; la poesia di nuovi protagonisti – si pensi, appunto, a Boudlaire e, già prima, alle anticipazioni nere di Edgar Allan Poe – ; il pensiero filosofico più avanzato e spregiudicato: ecco la materia nuova, la radice della modernità.

Gustave Moreau utilizza ancora miti e figure del passato (mitologico o biblico): le sue Salomè provocatoriamente danzanti, i suoi Edipi, le Sfingi, le Arpie paiono la ineguagliabile concretizzazione degli incubi di fine secolo, narrati ancora con linguaggio ‘classico’. Altri artisti rinnovano radicalmente questa lingua: il grande Odillon Redon ne è forse il rappresentante emblematico, nella essenzialità diafana e ambigua del suo sogno. L’ambiente tedesco partecipa subito a questo travaglio di matrice franco-belga e ne dà una originale interpretazione: Max Klinger e Franz von Stuck, allievi ambedue di Böcklin, ne sono forse le punte più avanzate.

L’artista sente, quasi come un sensitivo e un profeta, l’avvicinarsi del baratro, l’ombra della notte che avanza. Testimonianze straordinarie per intensità e originalità di pittura sfilano in una rassegna impressionante di annunci; artisti spesso trascurati rivelano la profondità geniale del loro sguardo, dallo sterminato bagaglio immaginario di una civiltà intera affiorano visioni di Apocalissi e minacce di mostri sconosciuti, prefigurazioni di disastri incombenti mentre il velo dell’esistenza viene squarciato da figure di morte. Anche le manifestazioni dell’amore – fisico o spirituale assumono le sembianze di fantasmi. Ai tuoni e ai lampi succederà l’esplosione della catastrofe universale, annunciata da un immenso angelo che suona la tromba di un giudizio epocale, come in una impressionante tela di Schineider o testimoniato nelle sulfuree ‘cartoline’ di Alberto Martini.

La modernità assume qui la figura truce di un sapere che soggioga le potenzialità appena intraviste del progresso alle istanze del potere, del sistema economico, degli sfruttamenti e delle schiavitù sugli uomini e sui popoli.

 

Maria Paola Forlani


Foto allegate

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