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Roberto Fantini. Il Rapporto 2014-2015 di Amnesty International 
Conversazione con Riccardo Noury
05 Marzo 2015
 

Da lunghi decenni, oramai, la pubblicazione del Rapporto Annuale di Amnesty International rappresenta, per chiunque abbia a cuore le condizioni di salute dei diritti umani nel mondo, un appuntamento irrinunciabile. L'ultimo Rapporto, pubblicato in Italia lo scorso 25 febbraio (decimo anniversario della scomparsa del principale "padre fondatore" dell'associazione, l'avvocato inglese Peter Benenson) documenta la situazione presente in ben 160 paesi e territori e costituisce, pertanto, una fonte di straordinaria importanza per una visione appropriata delle problematiche, delle violazioni e dei progressi relativi all'ultimo anno. Un anno che verrà certamente ricordato per i violenti conflitti e per la diffusa e ricorrente incapacità di troppi governi di tutelare i diritti e la sicurezza delle rispettive popolazioni. Un anno che è stato anche l'anniversario di due atroci quanto emblematiche tragedie del nostro tempo: la strage criminale di Bhopal (1984) e il genocidio in Ruanda (1994).

Nel 2014, poi, ricorrevano anche i 30 anni dall'adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, occasione questa che ha spinto Amnesty International (fondamentale, allora, per la nascita del documento) a rinnovare gli sforzi per combattere un fenomeno tutt'altro che lontano nel tempo (Campagna globale “Stop alla tortura”).

A Riccardo Noury, portavoce della sezione italiana di AI, abbiamo chiesto di fornirci qualche utile informazione rispetto ai principali contenuti dell'intero Rapporto.

 

 

– Nel presentare l’ultimo Rapporto Annuale, il presidente della sezione italiana, Antonio Marchesi, ha usato espressioni tanto dure quanto amare, parlando di “un anno catastrofico per milioni di persone intrappolate nella violenza” e di una risposta globale “vergognosa ed inefficace” della comunità internazionale, di fronte ai conflitti e alle violazioni dei diritti umani commesse sia dagli stati sia dai gruppi armati. Siamo veramente davanti ad un “clamoroso fallimento nella ricerca di soluzioni efficaci per risolvere le necessità più pressanti dei nostri tempi”?

Lo dice la storia di questi ultimi anni. Prendiamo l’esempio della Siria, che entra a metà marzo nel quarto anno di conflitto. Per tre anni, il Consiglio di sicurezza non ha potuto adottare una risoluzione a causa del veto posto o minacciato dalla Russia e dalla Cina. Quando è riuscito, nel febbraio 2014, ad adottarla, la parte più significativa in cui si chiedeva la fine degli attacchi indiscriminati sulla popolazione civile e il rilascio di prigionieri e ostaggi è stata completamente ignorata dai belligeranti. Questa mancanza d’azione ha causato la fuga di quattro milioni di rifugiati (per non parlare degli oltre sei milioni di profughi interni), che, nel 95 per cento dei casi, sono ospitati nei paesi limitrofi. I paesi che avrebbero maggiori possibilità (quelli del Golfo, l’Unione europea, Usa, Russia e Cina) non stanno contribuendo in alcun modo significativo ad alleviare la loro sofferenza.

 

– Nel Rapporto si esprimono particolari preoccupazioni per quanto concerne il crescente potere dei gruppi armati non statali. Di fronte a tale fenomeno, sempre il presidente Antonio Marchesi ha dichiarato che i governi dovrebbero avviare un “cambiamento fondamentale nel modo di affrontare le crisi nel mondo”. Ovvero?!

In generale, dovremmo evitare una ripetizione di quanto è accaduto dopo l’11 settembre 2001, ovvero una politica globale di risposta al terrore dei gruppi armati attraverso violazioni dei diritti umani: sparizioni, torture, detenzioni illegali, Abu Ghraib, Guantánamo. Il mondo è stato reso più sicuro da questo sistema di violazioni dei diritti umani? E additare una intera comunità come “minacciosa” (salvo che non si dissoci platealmente e pubblicamente dalle sue minoranze intrise di fanatismo) renderà le nostre società più tranquille?

Il terrore si ferma coi diritti, non col contro-terrore. Si ferma con un linguaggio che quei gruppi armati non capiscono, anziché appropriandosi del loro vocabolario violento.

Voglio tornare al caso della Siria. Per sconfiggere il nemico di turno del 2011, sono stati armati e finanziati gruppi di opposizione su base religiosa (che tra l’altro hanno tolto di scena i sostenitori di una rivoluzione laica, democratica, basata sulla giustizia e sul rispetto dei diritti). Nel 2014 si è scoperto che il nemico di turno non era più quello di prima, ma quello nuovo: lo Stato islamico. Il nemico di prima ha festeggiato. La popolazione civile siriana (e irachena e curda) sta pagando un prezzo terribile per queste politiche fallimentari.

La soluzione che proponiamo per risolvere le crisi e impedire che gruppi armati proliferino si basa da un lato sul rispetto rigoroso del Trattato internazionale sul commercio delle armi, entrato in vigore nel dicembre 2014 dopo una campagna, di Amnesty International e di altri, durata oltre 20 anni. Se il Trattato fosse stato già in vigore, lo Stato islamico non avrebbe fatto i suoi massacri con armi provenienti da 21 paesi e l’esercito siriano non avrebbe compiuto i suoi crimini di guerra.

Dall’altro lato, chiediamo agli stati membri del Consiglio di sicurezza di rinunciare volontariamente a esercitare il diritto di veto, nei casi di genocidio e di altri gravi crimini di diritto internazionale. Sarebbe un segnale importante al mondo, se, dopo 70 anni, le Nazioni Unite decidessero di fare veramente sul serio per la protezione dei diritti umani.

 

– E per affrontare il problema sempre più drammatico dei rifugiati, quali misure andrebbero adottate?

Come scrivevo prima, i paesi che ne hanno le maggior possibilità dovrebbero accogliere un numero significativamente più alto di rifugiati, attraverso il reinsediamento. Questo per quanto riguarda la crisi più spaventosa, ossia quella siriana. In generale, occorrerebbero politiche opposte alle attuali: quello dei rifugiati non è un problema di sicurezza (nostra) ma di diritti umani (loro).

 

– Per quanto riguarda il nostro Paese, anche in questo caso il bilancio sembrerebbe tutt’altro che rassicurante. Quali le questioni più urgenti?

Al centro delle nostre preoccupazioni restano la perdurante assenza del reato di tortura nella legislazione nazionale, la discriminazione nei confronti delle comunità rom, la situazione nelle carceri e nei centri di detenzione per migranti irregolari e il mancato accertamento – nonostante i progressi compiuti su qualche caso – delle responsabilità per le morti in custodia, a seguito d’indagini lacunose e carenze nei procedimenti giudiziari.

Inoltre, durante il semestre di presidenza dell’Unione europea, l’Italia ha sprecato l’opportunità di dare all’Europa un indirizzo diverso, basato sul rispetto dei diritti umani, sul contrasto alla discriminazione e, soprattutto, su politiche in tema d’immigrazione che dessero priorità a salvare vite umane, attraverso l’apertura di canali sicuri di accesso alla protezione internazionale, piuttosto che a controllare le frontiere.

Non solo, ma dopo aver salvato oltre 150.000 rifugiati e migranti che cercavano di raggiungere l’Europa dal Nord Africa, a fine ottobre l’Italia ha deciso di chiudere l’operazione Mare nostrum. Avevamo chiesto al governo, e lo stesso primo ministro si era impegnato pubblicamente in questo senso, di non sospendere Mare nostrum fino a quando non fosse stata posta in essere un’operazione analogamente efficace, in termini di ricerca e soccorso in mare. Le nostre richieste non sono state ascoltate, con le conseguenze ampiamente previste di nuove, tragiche morti in mare, nonostante il pieno dispiegamento dei mezzi e l’impegno della Guardia costiera italiana, lasciata pressoché sola dalla comunità internazionale.

 

Roberto Fantini

(da Free Lance Internationa Press, 4 marzo 2015)


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