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Lucio Dalla. Nell'intervista di Franco Patruno (2002)
01 Marzo 2015
 

Nell'anniverario della morte di Lucio Dalla riproponiamo la bella intervista di don Franco Patruno, uscita sull'Osservatore Romano del 30 ottobre 2002.

 

 

"Sento il bisogno della sua presenza…

l'incontro con lui è un'esperienza di perdono"

 

Non appaia strano che una conversazione con Lucio Dalla inizi con un libro; ma si tratta di Bella lavita, un felice succedersi di storie scritte dallo stesso cantante e musicista nella forma della fabula, assai prossime ad alcuni temi delle sue canzoni. Lo studio è molto bello, ampio, cadenzato da opere d'arte contemporanea e da uno splendido ovale con una Madonna col Bambino cinquecentesca collocata dietro la scrivania. Lucio è spontaneo, pronto a colloquiare e ad inserirsi al mio incipit su un possibile antico amore verso la letteratura: «Ho avuto due momenti ben distinti, perché da ragazzo non c'erano altri stimoli e ho letto tantissimo, quasi a far tesoro anche per il futuro, tra il piacere e la metodologia. Poi dall'avvento della televisione e dalla passione per il cinema, i libri si riducevano a cinque o sei all'anno. Ma non trovavo contraddizioni, perché avvertivo che il racconto visivo era una nuova forma di cultura e d'apprendimento. Negli ultimi anni, invece, è rispuntata la "passionaccia" per la pagina scritta con forte accentuazione, anche se, però, ho riletto tutti i libri della gioventù scoprendoli in modo nuovo, con nuovi occhi. È stato come un gioco di verifica sulle pagine che avevano veramente segnato la mia vita».

Mentre Lucio parla, ho la sensazione che ci si conosca da tempo immemorabile, quasi un'intuizione di comunanza di sentimenti. Continua: «Quando poi un editore mi ha proposto di scrivere e di pubblicare dei racconti quasi in sequenza, cioè non un libro solo ma diversi e legati tra di loro, veniva incontro ad una mia esigenza. Non sento, infatti, una mia canzone come isolata, ma, ripeto, quasi un momento nel continuo della sequenza. Questo l'avverto soprattutto in questi ultimi anni. Quando in passato scrivevo una canzone, questa era emblematica di uno stato d'animo e chi l'ascoltava ne faceva quasi un pezzo unico e simbolico del momento storico che si stava vivendo».

Dalla ha un colpo di fantasia quando mi dice che «oggi la canzone da sola è come una pecora in un night club» esprimendo molto bene l'urgenza di collegamenti non puramente formali, una sorta di congiunzione tra un tassello ed una altro di un mosaico in divenire. Mentre parla, prende in mano un oggetto prezioso, quasi una clessidra storica che è geometricamente deposta sulla scrivania, e mi dimostra la polifunzionalità dell'oggetto, ora decorativo e persuasivo nel contesto dell'arredamento.

«Non riesco più a pensare» continua «ad una cosa unica. Pensa ad un concerto che è preceduto da un Cd o che sarà trasmesso per televisione: tutto è collegato, unito o, come mi suggerisci tu, un tassello di un mosaico più ampio. Anzi, penso che sempre più la vita stessa sia mosaicale perché le realtà non sono univoche: dove sembra definitivamente chiudersi una vicenda, questa ne germina un altra». Mentre Lucio parla, mi chiedo, e chiedo a lui, se i passaggi da un momento all'altro, cioè dalla canzone alla performace in tv, dalla scrittura e da questa ad un concerto, non crei il disagio della dispersione.

«No, non credo» mi risponde subito, «o, meglio, così non è per me. Avverto interni passaggi e connessioni tra i linguaggi, per cui quando sperimento musicalmente dopo aver scritto un racconto, penso ad un unico evento che si esprime in modi diversi ed arricchisce il mosaico». È molto bello che Dalla personalizzi sempre: «Credo che l'uomo, nei suoi momenti più interessanti, soprattutto quelli che nascono dal disagio, senta il bisogno di andare oltre. Non è una mia constatazione che la gioia spesso segua il disagio». Mi collego a quanto dice proponendo un termine grave e fortemente connotato esistenzialmente, cioè l'angoscia. Lucio, pur continuando a muoversi per dar forza alle parole, si concentra più intensamente e sposta la conversazione da possibili esiti astratti alle sue opere. «Avrai notato», riprende ritmando le parole come in un blues «che i miei personaggi non sono mai dei vincenti. Infatti non si tratta solo di precari, ma di persone coscienti della loro precarietà. Debolezza è tutt'altro che stupidità: la grandezza dell'uomo sta nella sua debolezza. Quando uno avverte il limite e non si autogratifica mitizzandosi, è veramente grande. Non si tratta di falsa umiltà, che è ipocrisia, ma, ripeto, coscienza di una precarietà pellegrinante». Mi accorgo che, senza la minima forzatura, il dialogo s'è fatto religioso, anzi decisamente cristiano. «Io credo in Dio e avverto che vuole divinizzarci. Non fraintendere: mi ama e mi rende partecipe della sua vita. Questo è stupendo, unico, inimmaginabile».

Mentre parla, ma non per distrazione, guardo il quadro con la Madonna e il Bimbo che, lontano da un intento puramente ornamentale, Lucio ha inserito nella parete a conclusione di un percorso. Infatti, l'ampia stanza potrebbe essere dispersiva, ma il punto focale non è al centro dello spazio, ma ellitticamente dietro la scrivania, a favorire il senso d'intimità e di rapporti personali. «Chiedo a Dio, e lo prego con grande piacere, che mi guidi nei momenti più bui, anche quando, in teoria, dovrebbe abbandonarmi. Mi fido di Lui perché non è solo intelligenza che calcola, amore senza limiti. Allora è come essere raccolti». L'intervista diventa un confronto tra amici. Gli chiedo: «Quando e come preghi?» Più che una risposta è un collegarsi: «È una richiesta d'intervento continuo che inizia con la presa di coscienza di un elemento talmente visibile da essere imbarazzante: è l'amore, il sapersi amati da Dio in maniera misteriosa, imperscrutabile. La constatazione nasce dal piccolo, dalla cronaca della nostra vita». Ora Dalla sembra entrare in uno dei suoi motivi musicali, con le piccole storie che diventano grandi forse a loro insaputa. «Quando, ad esempio, torno a casa alla sera, aprendo una finestra vedo il cielo. Ci sono tante finestre, tutte in contatto col mondo. Non sono un teologo, ma penso, infantilmente, a Dio che mi posiziona, mi vede nella mia attuale collocazione. È come un guardiano, nel senso di una sensazione della sua presenza creatrice ed amorosa». Sorridendo, come farebbero i teologi che scrivono canzoni, parla poi della Trinità riportandomi al triangolo dei vecchi catechismi: «Il vertice è Gesù, nel senso del Verbo che si fa carne, la persona visibile che svela quello che mai si sarebbe potuto vedere e toccare». Mentre parla, penso ad un triangolo capovolto, per non scomodare il mio vecchio De Trinitatae che, con i suoi schemi logici, manderebbe in crisi la proiezione ortogonale che sta delineando. Anzi, ricordo la prima Lettera di Giovanni. Lucio, infatti, continua dicendo che «Gesù è il testimone che deve essere visto. È chiaro che pregandolo mi unisco al Padre e allo Spirito Santo. Di notte, nei momenti veramente liberi dopo giornate di lavoro, vivo momenti di stupore o, usando un parolone, mistici eppure familiari. Gli dico, ad esempio, 'dimmi tu cosa devo fare'. Sento il bisogno di quel silenzio notturno per avvertire la Sua presenza; sento, cioè, che è grande, che mi guida, consiglia, indica la strada. È un'esperienza di perdono: non un alibi, perché mi mette di fronte a lui ma anche a me stesso. Un perdono che mi dona dignità. Questa è la mia preghiera, se vuoi non ufficiale, ma sentita: non riuscirei a farne senza. Il perdono, d'altronde, lo avverto per me e per gli altri». Dalla per un attimo china la testa verso il basso e, sorridendo quasi a chiedere scusa per lo svelamento dell'intimità, riprende a parlare dei suoi personaggi.

Non tardo ad accorgermi che c'è perfetta continuità con ciò che prima ha manifestato con disarmante semplicità. «I miei personaggi, quindi, sono dei fragili e a volte perdenti. Potrei definirli precari. Non appartengono solo ai poveri o agli emarginati, ma possono anche essere dei ricchi che sono colpiti da vuoto esistenziale, che vengono come afferrati dalla domanda sul senso della loro vita». Mi collego con una richiesta che potrebbe apparire curiosa e, se non fosse il caso di Lucio Dalla, anche fraintesa come offensiva: «Non ti senti a volte come un istrione, nel senso dei cantori medievali che facevano ridere e piangere le folle?» Mi strappa letteralmente la parola: «Giusto! Istrione! L'istrione, perdonami il termine, è un parafulmine. Fa piangere e ridere». È felice di questo paragone, non dimenticando che, tra le diverse accezioni del sostantivo non prevale il significato spregiativo dell'esibizionista o di colui che cerca solo facili effetti, ma, soprattutto nella letteratura e nel cinema, quello antico risalente alla commedia romana, cioè del personaggio che dall'ironia e dall'esuberanza mimetica sa trarre indicazioni per la vita, spesso smitizzando ogni autocelebrazione mitizzante.

«Ma lo sai» continua «che far piangere e ridere è fare appello all'anima?» Rimango stupito del volo d'ala trascendente e sorrido di gusto mentre Dalla personalizza dicendo che «Credo sia questa la vocazione che Dio mi ha donato: piangere e ridere non è un fatto decorativo, esterno. Non mi ha detto di essere un telegiornale dell'esistenza. Pensa ai telegiornali: appiattiscono le informazioni una accanto all'altra, da quelle gravi alle futili. Tutto è compresso. Non c'è tempo per ridere o piangere, perché tutto, ripeto, è compresso e reciprocamente smorzato. Dove attingiamo il riso e il pianto se non dalla coscienza? L'importante e che riso e pianto ci trasformino, ci rendano più umani, più veri». Mi inserisco chiedendogli il rapporto con le storie delle sue canzoni. «Le storie che scrivo e canto sono riso e pianto della vita. Ti racconto un episodio recente: presento il mio Bella lavita in un'importante libreria del centro storico. La gente è attenta e, alla fine, li ho ringraziati perché non erano intelligenti. Gusta, don Franco, il paradosso: non erano intelligenti, nel senso intellettualoide del termine, perché erano come me, cioè gente normale che mi ascoltava, si rallegrava o commuoveva a seconda dei casi. Credimi, è un compito. Dio mi ha fatto grande uno e sessanta, mi ha dato questo temperamento, questa voce, mi ha suggerito di scrivere queste cose e, estremizzando ma non troppo, mi ha voluto come radio trasmittente».

Capisco quello che Dalla mi vuol dire: non pretende d'essere un teologo quando parla di radio trasmittente, cioè strumento inerte. È ben consapevole d'esser libero e creativo; ma libertà e creatività li avverte come doni o talenti che deve mettere in gioco, non nasconderli o sotterrarli. «Questa sollecitazione credo di averla da sempre. Ad esempio, io non mi annoio, anzi credo di non essermi mai annoiato. Non credo ai momenti totalmente vuoti: ho sempre qualche cosa da pensare o da dire. Anche la familiarità con la quale la gente mi ferma per strada o mi chiede l'autografo mi aiuta a stabilire rapporti non vani. Allora mi piace giocare al gioco serio delle domande e mi piace instaurare veloci dialoghi. È sempre vita e non noia del patire gli altri. Mi capita anche, sia nei momenti di queste relazioni che in quelli del silenzio, che potrebbero coincidere con la noia, che divento invece più ricettivo: mi entrano, cioè, delle cose che sono quasi tangibili». Lucio ha vivo il senso della persona e mentre si accalora per narrare il tessuto dei rapporti, mi accorgo che per lui ogni incontro non è mai un caso. Infatti continua dicendo che «Per il Signore non ci sono estranei: ogni essere ha una consistenza e non c'è nessun poveraccio a cui Dio non pensi».

Gli ricordo l'affermazione del Matto a Gelsomina ne La strada di Fellini, che rende consapevole che pure lei, con quella testa di carciofo, è un vero e proprio mondo; come quel sassolino, apparentemente inutile, ma che se non ci fosse non avrebbe senso l'universo. Ora sposto leggermente il dialogo: «Ti pesa, Lucio, il successo?» «No, mi son sempre saputo difendere. So crearmi un ritmo e delle pause di silenzio. Qualcuno pensa che il successo crei solitudini. Può essere vero, ma io non lo sento in questo modo. Mi basta scendere giù in strada e non sono più solo. Poi dedico molto tempo alla elaborazione della mie canzoni. E anche qui, malgrado possa venire a me un'idea o un'intuzione, subito mi confronto con i miei collaboratori, anzi amo molto l'esperienza comunitaria».

«Hanno affermato che tu hai quello che viene chiamato l'orecchio assoluto, quindi sentirai più acutamente le stonature, le disfunzioni le disarmonie…» Quasi continua la mia osservazione: «Mi fanno piacere, anzi, mi rendono allegro, perché rientrano in quella ricchezza delle differenze nella quale anche una stonatura viene riscattata dal ritmo». Divento, invero, insistente: «Ma, durante un concerto, se senti una sbavatura ti alteri o riesci» dico parole grosse «a vivere la carità?» «Ti assicuro che non mi sono mai acceso oltre misura. Ma questo rientra in quello che ti dicevo all'inizio della nostra conversazione: lo stupore. Sempre mi stupisco della novità, delle sorprese. Non c'è niente di fisso e penso che Dio stesso non è un monolite, ma è l'unità perfetta e la perfetta diversità. Come il perdono: è la realtà più creativa che ci sia. Il perdono stupisce sempre perché è una novità assoluta».

Ed è anche per me una novità assoluta questa amicizia con Lucio Dalla, cantore dello stupore e del silenzio dei piccoli.

 

Franco Patruno

(L'Osservatore romano, 30/10/2002)


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