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Milano e il suo 'Carnevalone' 
di Mauro Raimondi
Carnevalone di Milano. Il corso del sabato grasso (
Carnevalone di Milano. Il corso del sabato grasso ('L'illustrazione italiana', 1893) 
18 Febbraio 2015
   

«L’è la nostra Milan veggia – tiremm el fiaa – l’è la nostra Milan, zion, che canta e che sona e che balla a carneval!», scriveva in A Carlo Porta l’immortale Delio Tessa. E il riferimento al Carnevale non era casuale, perché da sempre questa festa ha rappresentato molto, per Milano.

Innanzitutto, un segno di distinzione rispetto a tutta Italia, che lo conclude in anticipo rispetto a noi milanesi, per cui “grasso” è il sabato e non il martedì. Una tradizione che vox populi fa risalire addirittura al periodo di Ambrogio: essendo assente da Mediolanum il loro vescovo, infatti, i milanesi si sarebbero rifiutati di concludere i festeggiamenti che vennero appunto prorogati fino al sabato, quando finalmente Ambrogio fece ritorno in città.

Come sempre, le leggende nascondono qualcosa di vero, e in effetti fu proprio Ambrogio a ottenere la dilazione del digiuno purificatore dal mercoledì alla domenica per la sua diocesi. Una deroga che, tra l’altro, costituisce una delle principali differenze tra il rito ambrosiano e quello romano.

Chi lo sa, forse fu proprio questa unicità che inorgoglì i milanesi facendogli amare ancora di più il “loro” Carnevale. La festa impazzò durante tutto il medioevo e soprattutto in epoca Spagnola, nonostante la possibilità di mascherarsi provocasse spesso problemi di ordine pubblico, permettendo lo sfogo di quella violenza che soggiaceva alla povertà dilagante. Per un periodo ben più lungo dell’attuale, agli splendidi balli nei palazzi dei nobili facevano da contrappunto gli spettacolini nelle strade a uso e consumo del popolo, che assisteva e partecipava divertito al corteo delle maschere sul corso di Porta Romana e al lancio di confetti dai carri allegorici (a cui, più tardi, si sostituirono i coriandoli, inventati per l’appunto da un milanese).

Persino la chiusura ritardata della città per la peste del 1629 fu almeno in parte causata dall’impossibilità di sospendere una festa così sentita, come invece fecero gli austriaci prima delle Cinque Giornate, temendo quella rivolta che poi sarebbe esplosa da lì a poco.

A quei tempi, i milanesi lavoravano buona parte dell’anno per preparare costumi e carri talmente belli da diventare oggetto di racconto. Ad esempio, in Giuseppe Rovani, che nel suo libro Cento anni trascinò i suoi protagonisti «nel fitto del combattimento, sul corso di porta Romana, a percuotere e a rimaner percossi dalla pioggia de’ pomi, a imbrattare e a rimaner imbrattati dalle ova, che si rompevan sulle parrucche incipriate a farvi strani empiastri e lorde miscele di tuorli e di cipria».

Durante le Belle Epoque fu soprattutto la Società del Giardino a organizzare la festa, e nel 1892 la notizia che il Consiglio Comunale aveva deciso di non sostenere più il Comitato per il Carnevale ambrosiano perché lo considerava secondario rispetto alle esigenze della città fece infuriare i milanesi. Simbolicamente, quella presa di posizione dichiarava la fine di un certo tipo di Milano e di vita: altro che divertirsi, i milanesi, adesso, dovevano pensare soprattutto a lavorare sodo, a produrre sempre più velocemente per il benessere di un ristretto numero di benestanti che stavano diventando sempre più benestanti.

Il mondo borghese si nutriva di ipocrisia, e così lentamente il Carnevalone decadde. Toccando forse il fondo negli anni ’70 del Novecento, quando le lamette da barba comparvero dentro le palle di neve: come nei secoli passati, la violenza (questa volta politica) usava la festa per camuffarsi.

In seguito, la Milano socialista lo rilanciò con fuochi d’artificio e spettacoli che una volta illuminarono a giorno Palazzo Marino. Tuttavia, nonostante sopravviva la consuetudine del corteo cittadino guidato da Meneghino e Cecca, seguito dalla sfilata dei carri, il Carnevale adesso pare riscuotere un successo sempre minore tra gli adulti, che lasciano solo ai loro bambini il piacere del mascherarsi.

Probabilmente, il segnale che i milanesi, purtroppo, non sanno o non hanno più voglia di divertirsi.

Saludi


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