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Roberto Fantini. Dopo Charlie Hebdo 
Quello che ancora resta da comprendere. Conversazione con Carlotta Caldonazzo
17 Febbraio 2015
 

Per alcuni giorni non s’è quasi parlato d’altro. Poi, piano piano, come sempre, tutto si è allontanato, perdendo i propri contorni. Ci sono rimasti nella testa i tanti discorsi (spesso alquanto sgangherati) sul pericolo terrorismo, sull’Islam che avanza, gli islamici e gli islamisti, sul “siamo stati troppo buoni” e sul “sono troppo diversi da noi”…

Ma penetrare nelle vicende accadute, cercando di valutarle per quanto effettivamente rappresentano, cercando anche di individuarne le cause, vicine e meno vicine, richiederebbe tempi lunghi ed un impegno non soltanto occasionale.

È proprio in tale prospettiva che ci siamo rivolti a Carlotta Caldonazzo, redattrice e traduttrice di Arabpress, per domandare, per ragionare insieme, per tentare di fare qualche passo sulla difficile via della comprensione. Nella consapevolezza convinta e determinata che solo da una conoscenza robusta e non faziosa potremo ricevere i giusti strumenti per operare scelte ponderate e costruttive.

 

 

 Molti, in questi giorni, a proposito della strage compiuta nella redazione di Charlie Hebdo, parlano di “atto di guerra della Jihad” e di vero “11 settembre della Francia”. Ti sembrano valutazioni capaci di rispecchiare fedelmente quanto si è verificato e quanto si sta verificando?

Secondo me, l'11 settembre è paragonabile piuttosto agli attentati di Londra e Madrid (evento, quest'ultimo, presto caduto nel dimenticatoio), sia per gli obiettivi che per la messa in atto. Le azioni di Parigi, sia la strage nella redazione di Charlie Hebdo che il sequestro di ostaggi nell'alimentari Kosher, si possono considerare una “rappresaglia”, contro un giornale ateo nel primo caso, contro un simbolo della quotidianità ebraica nel secondo. Peraltro, Charlie Hebdo è un settimanale satirico che se la prende con tutte le autorità, religiose e politiche, compresi il papa cattolico, i rabbini, il governo francese, il Fronte Nazionale; prima del 7 gennaio, era spesso criticato da tutti i media francesi e praticamente ignorato nel resto del mondo. La sua redazione, invece, era già stata oggetto di rappresaglie da parte di islamici radicali (almeno secondo la versione ufficiale) nel 2011, quando era stata distrutta a colpi di molotov (la pagina web del suo sito era stata sostituita con un’immagine di Mecca e versetti del Corano), dopo aver pubblicato il numero Charia Hebdo, con vignette sul profeta dell'Islam rappresentato in copertina come caporedattore. Altre polemiche erano seguite alla pubblicazione di caricature simili nel settembre 2012.

 

– Forse, però, più che parlare di “rappresaglia”, sarebbe meglio parlare di “azione vendicativa” o “spedizione punitiva”. Che ne pensi?

Ho scelto “rappresaglia”, anche se i suoi esecutori hanno gridato di aver “vendicato il profeta” dell'Islam, per l'etimologia, dal latino represalia, atto di riprendersi qualcosa che è stato sottratto, soprattutto in guerra. Credo che sia stato proprio questo nelle loro intenzioni: come se i redattori e i vignettisti di Charlie Hebdo avessero sottratto al profeta dell'Islam il suo valore, meritando di pagare questo affronto con la vita. Ciò è molto simile, secondo me, alla mentalità in cui affondano in parte le loro radici le cosiddette “pene coraniche”.

Spedizione punitiva” e “azione vendicativa” forse veicolano in modo anche più appropriato i moventi della strage nella redazione di Charlie Hebdo. Nel secondo caso perché la parola “vendetta” viene utilizzata in relazione alla giustizia divina (ad esempio nell'espressione “il giorno della vendetta”), un richiamo presente nell'immaginario di religiosi particolarmente rigidi. Quanto a “spedizione punitiva”, è un'espressione che dà l'idea dell'autoproclamazione dell'Isis come Stato, autorità in pieno diritto di punire chi trasgredisce, o meglio si ribella a ipotetiche leggi. Inoltre, contiene un azzeccato riferimento alle aggressioni delle squadre fasciste contro gli avversari politici, soprattutto di sinistra. Di certo, questo darebbe maggior spessore al canto di Bella Ciao durante il funerale di Charb, direttore di Charlie Hebdo dal 2009.

 

– Qualche commentatore, a proposito della dinamica dei fatti, ha anche sollevato qualche perplessità.

In effetti, vi sono diverse ombre, a partire dal fatto che, in pieno giorno, nessuno abbia fermato due uomini in abiti paramilitari con armi da guerra in bella vista, che hanno fatto in tempo addirittura a sbagliare indirizzo e a tornare sui propri passi. Inoltre, il diciottenne Hamid Mourad, sospettato di aver aiutato i fratelli Kouachi, si è consegnato quasi immediatamente alla polizia francese per esporre il suo alibi. Terzo, la carta di identità dimenticata da Said Kouachi nell'automobile utilizzata per l'attacco alla redazione di Charlie Hebdo è stata fondamentale per risalire all'identità dei due esecutori, entrambi da tempo nel mirino delle autorità. Un elemento questo che riporta alla memoria il passaporto di uno degli attentatori (presunti) dell'11 settembre, ritrovato intatto. Quarto, nessuno sforzo è stato compiuto per catturare Amedy Koulibaly vivo, per interrogarlo sui mandanti. Infine, i media hanno riferito che i fratelli Kouachi appartenevano ad al-qaeda yemenita, ovvero al-qaeda nella Penisola Araba, mentre Koulibaly militava nell'organizzazione dello Stato Islamico (i cartelli del jihad di Iraq e Siria). Si sarebbe dunque trattato di un'azione coordinata tra due formazioni tra le quali non corre buon sangue.

 

– Fra i tanti interventi e pronunciamenti di opinionisti e politologi, ho trovato particolarmente interessante quanto sostenuto da Fareed Zakaria (La Repubblica, 10 gennaio 2015, L’analisi) il quale sostiene che non sarebbe certo il Corano a condannare aspramente la “blasfemia”, bensì la Bibbia. E che, però, ad ignorare ciò non sarebbero soltanto alcuni giovani fanatici ignoranti, ma anche molti Paesi a maggioranza musulmana che, nelle relative legislazioni, prevedono norme contro la blasfemia (a volte anche applicate). Che ne pensi?

Accusare il Corano per l'integralismo islamico nella sua variegata fenomenologia è come accusare il Nuovo Testamento per le crociate, i roghi e tutte le manifestazioni di intolleranza di alcune personalità o forze politiche. O, ancora, accusare il paganesimo germanico per i crimini del nazismo. Si potrebbe sostenere che l'unica soluzione sia la laicità dello Stato e la secolarizzazione della società, ma non mi sembra che i paesi in cui sono entrambe ben sviluppate, almeno formalmente, siano scevri da fenomeni di estremismo di qualsiasi forma. Sette sataniche a parte, esistono movimenti e partiti neofascisti e neonazisti persino nella progredita Scandinavia. Il problema sorge quando una qualsiasi ideologia viene utilizzata per conquistare e mantenere il potere. Quanto all'Islam, le sue versioni sunnite più radicali sono promulgate e praticate ufficialmente da un paese che gode di piena impunità, anzi stima a livello internazionale, l'Arabia Saudita. Ad esempio, non mi risulta che governi e forze politiche “occidentali” si siano mobilitati a favore del blogger saudita Raif Badawi (foto). Il regno dei Saud, inoltre, è nato dall'unione di Mohamed Ibn Saud e Mohamed Abd el-Wahhab, che ha dato vita alla corrente sunnita detta wahhabita, la più intransigente dell'Islam sunnita, cui si ispirano salafiti e takfiriti (i primi pretendono di riportare il mondo ai tempi del profeta dell'Islam, i secondi considerano tutte le altre correnti religiose, incluse quelle musulmane, infedeli, kuffar). Al wahhabismo aderivano anche gli ideologi del terrorismo nell'Algeria degli anni '90, fautori di un pensiero radicalmente diverso dall'Islam popolare praticato dalla popolazione.

 

– E che dire dell’affermazione di Tahar Ben Jelloun, secondo cui le vere vittime dell’azione criminale ai danni dei vignettisti francesi sarebbero i tanti musulmani che vivono pacificamente in Europa? O di quella di Tariq Ramadan, secondo cui ad essere traditi sarebbero stati proprio i princìpi islamici?

Purtroppo sono entrambe vere. Anche se non mi sembra che qualcuno abbia mai messo sotto accusa il cristianesimo solo per i casi di pedofilia tra il clero cattolico, o per il fatto che i clan della malavita organizzata e dei cartelli della droga sudamericani si definiscano religiosi, o, ancora, perché Enrico De Pedis (il Renatino della Banda della Magliana) sia stato sepolto nella basilica di S. Apollinare a Roma. Malgrado il progresso scientifico, sembra che pochi vogliano fare a meno degli stereotipi, sia ad Oriente che ad Occidente. Su questo si fonda l'integralismo di qualsiasi forma, che non considera gli esseri umani in quanto tali, ma come simboli.

 

– Quanto credi, in definitiva, che sia possibile e lecito collegare i fatti di Parigi con le vicende tragiche del mondo mediorientale?

Penso solo in parte. Anzitutto credo che, se gli stessi che ora costituiscono la coalizione internazionale contro il terrorismo che bombarda le postazioni dell'Isis in Siria, avessero evitato di inviare soldi e armi ai “ribelli” per favorire il rovesciamento del regime siriano di Bashar al-Assad, probabilmente i cartelli del jihad godrebbero di una forza minore. Tra i sostenitori della componente islamica di questi ribelli si annoverano alleati storici degli Stati Uniti come l'Arabia Saudita. Inoltre, buona parte dei finanziamenti, formazioni come l'Isis in Iraq li hanno ricevuti dal commercio del petrolio a prezzi irrisori, dal contrabbando di reperti archeologici e da altri traffici illegali, attività impossibili senza un mercato di vasta scala. Anche al-qaeda nel Maghreb Islamico (Aqmi) si finanzia con i traffici illegali, tra i quali spicca il commercio e trasporto della cocaina proveniente dai cartelli della droga sudamericani. Per questo ritengo sia più opportuno, per l'Isis, come per Aqmi e affini, usare l'espressione “cartelli del jihad”. Mi sembra che operino con le stesse modalità e, mutatis mutandis, la stessa mentalità del crimine organizzato. Secondo me, sbaglia la comunità internazionale a non trattarli da criminali comuni. La maggior parte dei loro militanti o presunti tali proviene da storie di crimine comune, compresi i fratelli Kouachi o Amedy Koulibaly. C'è poi il caso di chi parte per Siria e Iraq dall'Europa o dall'America del Nord, casi che offrono spunto per interessanti e urgenti riflessioni sui modelli sociali vigenti. Senza bisogno di dover analizzare i paesi islamici e musulmani, il modello economico capitalista in cui viviamo immersi si fonda sull'oppressione e lo sfruttamento: altre forme di violenza. L'economia gira anche grazie alle guerre che arricchiscono le lobby di chi produce e vende armi, altre manifestazioni della violenza. Dall'edonismo reaganiano in poi i governi non hanno fatto nulla per promuovere mentalità più solidali e sensibili alla collettività. Anzi, il modello etico che si promuove (in Italia da Craxi in poi) è imperniato sull'individualismo e la trivializzazione della volontà di potenza nietzscheana. Tutto ciò, accanto all'inesistenza di movimenti collettivi seri, in grado di rappresentare chi si sente emarginato (per cui non esistono garanzie sociali), offre terreno fertile a movimenti estremisti perché favorisce la nevrosi. In altri termini, la maggior parte delle società attualmente esistenti educa, sin da bambini, al mito del successo materiale individuale, facendo intanto vivere tutti perennemente sull'orlo della frustrazione. Un discorso a parte si potrebbe aprire riflettendo su quanto la trasformazione delle relazioni sociali sempre più relegate allo scambio di messaggi attraverso qualche schermo induca la spersonalizzazione dell'altro.

 

– Quali strategie politiche, allora, dovrebbero essere adottate dalle principali potenze occidentali?

In politica estera basterebbe porre fine a ogni tipo di “guerra umanitaria”. Molti militanti dell'Isis provengono da zone il cui tessuto sociale è stato quasi irrimediabilmente dissestato da interventi militari internazionali (o approvati dalla comunità internazionale), come i Balcani, il Caucaso, la Libia, l'Iraq. Quanto alla politica interna, sarebbe un buon inizio smettere di idealizzare azioni come quelle di Parigi parlando di “guerra di civiltà” e analizzare il fenomeno in modo razionale e ragionevole. Altrimenti si rischia solo di diffondere altri miti. Mi ha colpito, ad esempio, il consistente numero di adolescenti affascinati dal “Libanese” o dal “Freddo” della serie Romanzo Criminale. È come affermare che, siccome la società così com'è mi provoca insoddisfazione e dolore, qualsiasi antieroe rispetto a questa diventi un eroe nel mio immaginario. Un atteggiamento che favorisce la diffusione capillare della violenza a vari stadi, dagli insulti razzisti, al bullismo nelle scuole, fino ad arrivare al terrorismo. Alla base c'è sempre la riduzione dell'esistenza umana a strumento per conquistare qualcos'altro.

Passando a considerazioni più pragmatiche, debellare il contrabbando di armi è un'utopia, ma sarebbe un buon obiettivo cui tendere, accanto al disarmo. Sarebbe bene, inoltre, stabilire un minimo di giustizia sociale e far sentire ogni individuo responsabile delle proprie azioni di fronte alla propria coscienza, ma anche di fronte alla collettività. A proposito delle comunità islamiche, ad esempio, si potrebbero favorire incontri tra le scuole e i centri di cultura islamici, si potrebbero convincere regioni e province a organizzare in questi centri corsi di italiano L2 (per stranieri). Insomma, si potrebbe creare maggiore integrazione di tutte le minoranze religiose istituendo un confronto dialettico continuo. Lo scriveva anche Voltaire: sarà dunque la forza a decidere nell'attesa che la ragione non sia penetrata in un numero abbastanza grande di teste da poter disarmare la forza.

Voltaire, Franz Fanon e Thomas Sankara sarebbero un ottimo inizio per fondare una società inclusiva e basata sulla partecipazione collettiva.

 

 

Carlotta Caldonazzo. Dal 2010 redattrice e traduttrice di Arabpress, sito di informazione sul mondo arabo e sul Medio Oriente; si occupa soprattutto di Maghreb, Turchia, fenomeni legati al terrorismo di matrice islamica. Nel 2010-2011 collaboratrice del quotidiano Il Manifesto per la sezione esteri. Nel 2009-2010 cofondatrice e redattrice di Arabismo, sito di informazione sul mondo arabo.

 

Roberto Fantini

(da Free Lance International Press, 5 febbraio 2015)


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