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Boldini. Lo spettacolo della modernità
Boldini,
Boldini, 'La divina in blu' 
12 Febbraio 2015
 

«C’est un classique». È questo il riconoscimento dato a Giovanni Boldini (Ferrara 1842 – Parigi 1931), fin dalla prima esposizione postuma che si tenne a Parigi a pochi mesi dalla morte. «Il classico di un genere di pittura», ribadì in quella occasione Filippo de Pisis.

Si è aperta ai Musei San Domenico di Forlì, fino al 14 giugno (catalogo Silvana Editoriale), la mostra “Boldini. Lo spettacolo della modernità”.

Nella sua lunghissima carriera, caratterizzata da periodi tra loro diversi a testimonianza di un indiscutibile genio creativo e di un continuo slancio sperimentale che si andrà esaurendo alla vigilia della prima Guerra Mondiale, il pittore ferrarese ha goduto di una straordinaria fortuna, pur suscitando spesso accese polemiche, tra la critica ed il pubblico. Amato e discusso dai suoi primi veri interlocutori, come Telemaco Signorini e Diego Martelli, fu poi compreso e adottato negli anni del maggior successo dalla Parigi più sofisticata, quella dei fratelli Goncourt e di Proust, di Degas e di Helleu, dell’esteta Montesquiou e della eccentrica Colette. Rispetto alle recenti mostre dell’artista, questa rassegna si differenzia per una visione più articolata e approfondita della sua multiforme attività creativa, intendendo valorizzare non solo i dipinti, ma anche la straordinaria produzione grafica, tra disegni, acquarelli e incisioni. Le ricerche più recenti di Francesca Dini (curatrice della mostra insieme a Fernando Mazzocca), consentono di arricchire il percorso con la presentazione di nuove opere, sia sul versante pittorico che, in particolare, su quello grafico.

Per Boldini l’esperienza fiorentina è un primo esito della sua formazione. Il padre Antonio buon pittore era cresciuto alla scuola dei Nazareni e di Minardi e attraverso di loro aveva sviluppato una particolare conoscenza per i quattrocententisti. La stessa pittura ferrarese era impostata sulla scia del neoquattrocentismo. La scoperta a Palazzo Schifanoia degli affreschi del ‘400 negli anni ‘40 dell’Ottocento rilancia il legame e la moda.

A Firenze entra nel gruppo dei Macchiaioli, grazie all’amicizia con Cristiano Banti e poi alla conoscenza di Diego Martelli. Boldini ama il verticale e scorcia le sue vedute paurosamente. Predilige gli interni, la sua scrittura pittorica è caratterizzata da lunghe pennellate, improvvise. Ai Macchiaioli deve il pensiero sintetico, abbreviato. Rivoluziona da subito il ritratto, come comprende immediatamente Telemaco Signorini. I suoi ritratti sono ambientati; hanno come sfondo degli interni. Pezzi di mondo, abitudini o la psicologia del personaggio non è che risaltino di meno. Gioca tra personaggi e ambiente.

Ma anche con gli impressionisti la differenza è forte. A Boldini non interessa l’attimo fuggente, impastato di luce. A lui interessa l’idea di movimento come la vita moderna. Dipinge il frammento, la parte per l’intero. La sua pittura è una sineddoche. La parte per il tutto, singolare per il plurale, la materia per l’oggetto e così via.

Nella Parigi del 1871, dopo la guerra franco-prussiana e la tragedia della Comune, deve conquistarsi un ruolo in un ambiente sociale dove la borghesia deve traghettarsi dal secondo impero alla terza repubblica.

Cede inizialmente alle mode (Goupil è la ditta che ha il monopolio sul mercato dell’arte in un periodo nel quale il neosettecentismo è il linguaggio col quale la nuova borghesia si specchia nella nobiltà precedente) prima di abbandonare conti e damine e avviarsi verso il grande salto della modernizzazione scientifica ed estetica.

Giocheranno un ruolo fondamentale i Salon e le grandi esposizioni. Tutto il dibattito sulla costruzione della Tour Eiffel per l’expo del 1889 lo testimonia.

Abbandona, oramai famoso e ricco, questo genere e riprende la sua strada. Gli esterni diventano velocemente quelli della città dei caffè, che la nuova Parigi dei boulevard, disegnati da Haussman, concepisce come interni-esterni, ambienti senza soluzione di continuità di movimento che ha nella vita frenetica della città, nei luoghi di ritrovo e di divertimento i propri simboli.

Infine i ritratti. Saranno questi il vero lascito della sua scrittura artistica.

I suoi ritratti sono pagine di trasfigurazione dell’alta società, di spettacolo della modernità e di narrazione letteraria. Sembrano uscire da Proust, Huysman, Montpassant, Colette. Ma c’è anche Zola. Saranno loro in realtà a guardare lui. C’è molto D’Annunzio.

Ma c’è un Boldini più sottile oltre questa smaltata apparenza. Le caratteristiche dei suoi ritratti mondani, soprattutto femminili, sono tali da identificare certo lo spettacolo della modernità, le sue figure si affacciano come su un palcoscenico, ma la posa e la forma giocano una sottile, evidente tensione tra il ritratto del volto e il corpo vestito. Le sue lunghe pennellate improvvise scavano, attraverso la luce, nel colore, creando un elemento meditativo nascosto nell’apparente eleganza della figura.

Boldini esibisce il cromatismo elegante e la pennellata sciolta e rapida ricavati dallo studio della tradizione olandese, all’interno di un serrato confronto con le istanze più moderne e innovative della pittura contemporanea: da Edgar Degas a John Sargent, da James Abbott McNeill Whisltler alla svedese Andreas Zorn. All’interno di questi riferimenti artistici, prende forma una straordinaria galleria di ritratti che ci restituisce i protagonisti dell’alta società parigina e cosmopolita descritta da Marcel Proust in tutta la sua frivolezza e nel suo fascino decadente, governata dal “sovrano delle cose transitorie”, Robert de Montesquiou. Modello per il barone di Charlus della Recherche du temps perdu e per l’esteta Des Esseints nel romanzo Á rebours di Joris Karl Huysman, Montesquiou fu raffigurato in oltre cinquanta ritratti, tra i quali quello eseguito da Boldini nel 1897 (Parigi, Musée d’Orsay).

Lo stile, all’apice della sua fortuna, è quello ormai sperimentato dai classici.

Ha attinto, come già detto, dai Macchiaioli, dagli Impressionisti, è riandato dai classici olandesi e spagnoli del Seicento, da Van Dyck fino a Goya. Ma c’è una vanità esausta, spossata che si fa malinconia, malessere, presagio di una crisi di civiltà in quel movimento della pittura boldiniana che esaurisce un’epoca e anticipa nuove tendenze. L’inutile strage perpetuata in Europa del 1914 al 1918 farà anzitutto strage delle illusioni. La guerra ci restituisce un mondo a brandelli, separa le parole dal loro significato, la modernità felice di fine Ottocento, rappresentazione del sogno borghese al potere, subisce una lacerazione profonda, irrimediabile.

Come le icone femminili boldiniane, fragili e incantevoli, fermate in un lampo di vita.

Marcel Proust ha scritto:

«Il pittore aveva saputo immortalare il moto delle ore nell’attimo luminoso in cui la donna aveva sentito caldo e aveva smesso di danzare, in cui l’albero era avvolto da un alone d’ombra, in cui le vele sembravano scivolare su uno smalto dorato. Ma proprio perché l’attimo gravava su di noi con tanta forza, quella tela così fissata nel tempo dava l’impressione di un’estrema fuggevolezza, si sentiva che presto la donna se ne sarebbe andata, le barche sarebbero sparite, l’ombra si sarebbe spostata; che la notte stava per scendere e il piacere per finire; che la vita passa e gli attimi, mostrati contemporaneamente con tutte le luci che vi si fondono, non si recuperano più». (M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto, “Meridiani”, II, Milano 1986, p. 714)

 

Maria Paola Forlani


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