Tania Bruguera dovrebbe trovarsi il prossimo 22 di febbraio a Madrid per riprendere e presentare una delle sue opere alla Fiera Internazionale di Arte Contemporanea ARCO, ma sa che non potrà farlo. Intrappolata dalla giustizia cubana da quando lo scorso 30 dicembre è stata arrestata durante la realizzazione della sua performance #YoTambienExijo, l’artista rimane all’Avana in attesa che la sua situazione legale si risolva. Parliamo con lei di questo, del suo artivismo e del futuro di Cuba.
– Qual è la tua attuale situazione legale e migratoria?
Sto aspettando che il pubblico ministero riduca l'imputazione a mio carico. Ho chiesto assistenza a vari giuristi, come Laritza Diversent del gruppo Cubalex, e anche a René Gómez Manzano, della Corrente Agramontista. Loro mi hanno detto che in casi come questo ci sono almeno tre possibili conclusioni: una è l’archiviazione del caso, che può essere temporanea o permanente. Un’altra è che dispongano una misura amministrativa, che comporta una multa. Il particolare di questa opzione è che io dovrei ammettere la mia colpevolezza accettando le accuse e le imputazioni che mi fanno, e non ritengo che questa sia la giusta variante. La terza possibilità è che venga portata a giudizio, nonostante tutto dica che sia poco probabile.
"Soltanto gli avvocati ‘del sistema’ hanno il permesso di rappresentare un accusato, di modo che gli avvocati indipendenti possano assistermi ma non rappresentarmi"
– Sei intrappolata nei meccanismi contorti della giustizia cubana…
Ho potuto rendermi conto, durante questo processo, che esiste una vulnerabilità molto forte per i cittadini che si trovano in situazioni simili. Ad esempio, mi è molto difficile riuscire a trovare un giurista che voglia assumere la mia difesa. Soltanto gli avvocati del sistema hanno il permesso di rappresentare un accusato, di modo che gli avvocati indipendenti possano assistermi ma non rappresentarmi. I pochi che hanno acconsentito a rappresentarmi mi hanno avvisato, da adesso, che la soluzione è accettare tutto affinché la situazione si risolva e cercare di non arrivare a giudizio, perché il giorno in cui saremo in tribunale, dicono, la sentenza sarà decisa ancor prima di pronunciare la prima parola. Avremo perso prima di iniziare la difesa.
– Tra gli incubi peggiori di molti emigrati cubani c’è quello di visitare l’isola e non poter poi più andarsene. La vivi così?
Per me è esattamente l’opposto. Il mio incubo è che mi lascino andare ma che non mi permettano di ritornare. Anzi, se domani stesso mi restituissero il passaporto che mi hanno sequestrato, io non me ne andrei. Ho bisogno di essere totalmente certa che non ci saranno sorprese amare come non poter tornare. Oltre a questo, ciò che ho vissuto nelle ultime settimane mi ha cambiato la vita. Non smetterò mai di essere un’artista, ma forse adesso devo restare qui. Loro devono capire che non possono eliminare dal paese tutto ciò che li disturba.
– Possiamo dire che El Susurro de Tatlin #6, tanto nella sua prima versione a Cuba nel 2009 quanto in questo tentativo di adesso, è un’opera che ha segnato la tua vita?
La performance del 30 dicembre scorso ha un antecedente ne El Susurro de Tatlin #6 realizzato nel 2009 al Centro Wilfredo Lam, che pure ha segnato profondamente la mia vita professionale. Io non lo sapevo all’inizio, perché non era qualcosa di pubblico, ma a me fu proibito di esporre a Cuba. Ho iniziato a rendermene conto perché nessuno mi chiamava più a esporre qui, al che ho capito che era perché stavano cercando di proteggersi… una cosa naturale in questo sistema. Ciononostante, le stesse persone che mi avevano censurato in quel momento a posteriori e che mi stanno censurando ora, vogliono utilizzare la realizzazione di quella performance come un esempio di tolleranza… e non è stato così.
– Perché credi che quella volta sia stato possibile aprire i microfoni al pubblico?
Ciò che è accaduto in quell’occasione al Wilfredo Lam è stato per le condizioni particolari che si sono presentate. Era durante la Biennale dell’Avana, uno spazio che di per sé è un po’ più tollerante, c’era una forte presenza di stampa e di stranieri, io ero l’ospite di Guillermo Gómez Peña l’invitato speciale della biennale, oltre a essere all’interno di uno spazio d’arte con un pubblico prevalentemente di intellettuali. Poi sì, c’è stata una punizione.
Proponevo progetti a enti culturali cubani e mi dicevano sempre di no. Accadde qualcosa di deplorevole, un viaggio con i miei studenti della Scuola di Belle Arti di Francia durante il quale avevamo intenzione di visitare l’Istituto Superiore di Arte (ISA). Allora, dall’ISA inviarono una lettera piuttosto chiara e diretta alla direzione della scuola a Parigi, dicendo che loro non avrebbero accettato quella visita se ci fossi stata io a guidare il gruppo e che avrebbero dovuto mandare un altro insegnante, perché io ero una persona con cui loro non avevano rapporti professionali, tralasciando ovviamente il fatto che mi ero diplomata in quella scuola e che avevo insegnato lì per alcuni anni. Durante quello stesso viaggio, al mio arrivo all’aeroporto, trovai ad aspettarmi una rappresentante del Consiglio delle Arti Plastiche e una persona in abiti borghesi che non si identificò mai. Entrambi mi fecero sapere che non avrei potuto fare niente con le istituzioni e cercarono di dire che il mio passaporto aveva problemi con il permesso al fine di impedire il mio ingresso nel paese, ma riuscii a dimostrare che, secondo la nuova legge migratoria, era tutto in regola.
"Se qualche straniero chiedeva di me ero un’artista di valore ma se io proponevo di fare qualcosa negli enti non me lo avrebbero permesso"
Durante un successivo viaggio a Cuba, chiesi un appuntamento al viceministro della cultura, Fernando Rojas, per discutere del mio caso. A quell’incontro erano presenti anche Rubén del Valle, presidente del Consiglio Nazionale delle Arti Plastiche, e Jorge Fernández, il direttore della Biennale dell’Avana. Spiegai tutto quello che mi stava accadendo e mi risposero che, dopo ciò che avevo provocato alla Biennale del 2009, a nessuno sarebbe potuto venire in mente che loro lo avrebbero dimenticato e che, così senza motivo, non mi avrebbero lasciato esporre negli enti cubani. Fu la conferma che esisteva una chiara politica di doppia morale contro di me, se qualche straniero chiedeva di me ero un’artista di valore ma se io proponevo di fare qualcosa negli enti non me lo avrebbero permesso. In quella occasione, ricordo che il viceministro mi disse che trovarmi lì con loro significava voler ridefinire il mio rapporto con l’istituzione e io dissi loro che potevano anche vederla così, ma che io ero un’artista che dissentiva e che criticava ciò che non mi sembrava giusto, che lo facevo qui e dove svolgevo il mio lavoro e che questo non lo avrei cambiato. Bene, oggi sappiamo qual è il risultato di questa politica culturale con coloro che tornano: portaci il tuo denaro e il tuo prestigio ma non le tue critiche.
– Come è nata l’idea di ripetere la performance, questa volta a Piazza della Rivoluzione?
Mi trovavo in Italia, a un festival di performance a cui ero stata invitata, e mercoledì 17 dicembre ho viaggiato da Venezia a Roma per partecipare alla messa di Papa Francesco. Al termine, mentre rientravo in treno mi ha chiamato mia sorella per chiedermi se avevo già ricevuto notizia dell’annuncio fatto dai Governi di Cuba e degli Stati Uniti. È stata una notizia molto forte a livello emotivo, come per tutti i cubani. Una sorpresa che ha mosso le fondamenta su cui si basava l’intera visione identitaria del cubano. La risposta a questa emozione è stata scrivere una lettera. Avrei voluto guardarlo negli occhi, Raúl Castro, e chiedergli come lo avrebbe spiegato, dopo tanti anni di scontri. Mentre scrivevo la lettera, ha iniziato a uscire la frase “in quanto cubana esigo…”. E lì stavo esponendo tutti i miei dubbi, le domande senza risposta, su un futuro che non era chiaro, su un’idea di nazione che si ridefiniva senza vedere verso dove stava andando.
Allora l’ho spedita a mia sorella e a un’amica che mi ha risposto: “anch’io esigo”. Così l’ho inviata anche al periodico Granma e a questo giornale, che l’ha finalmente pubblicata. È stata un’esperienza molto bella, perché si trattava di qualcosa che avevo fatto in maniera spontanea… io non avevo mai pubblicato qualcosa del genere, ma subito molte persone hanno iniziato a dire “anche io esigo” ed è addirittura stato creato l’hashtag nei social network. Mi sentivo molto emozionata al vedere tanta gente che si stava facendo coinvolgere e devo confessare di aver pensato ai miei tempi come a Occupy Wall Street.
– L’energia della spontaneità?
Sì, la forza che viene dall’entusiasmo che può generare qualcosa. Qui le istituzioni culturali e politiche vogliono essere padrone dell’entusiasmo del cubano, credono che l’entusiasmo sia legittimo solo quando si tratta di qualcosa conforme agli interessi dello Stato.
"Le istituzioni culturali e politiche vogliono essere padrone dell’entusiasmo del cubano, credono che l’entusiasmo sia legittimo solo quando si tratta di qualcosa conforme agli interessi dello Stato"
– Ti aspettavi la reazione che hanno avuto le istituzioni culturali e ufficiali?
R. Non avrei mai pensato di avere una risposta così sproporzionata. La cosa più significativa è stata che lo stesso presidente del Consiglio Nazionale delle Arti Plastiche, Rubén del Valle, mi ha detto dopo due lunghi incontri che a lui non interessava ciò che mi sarebbe potuto accadere legalmente… o qualsiasi altra cosa. D’altra parte, l’Unione di Scrittori e Artisti di Cuba (UNEAC) aveva pubblicato una dichiarazione piuttosto aggressiva, essendo io membro di questo ente e senza nemmeno convocarmi previamente a una riunione, senza controllare né fare delle ricerche. Semplicemente mi avevano giudicato e avevano messo in dubbio che ciò che volevo fare fosse arte. Le istituzioni culturali cubane giudicano invece di creare uno spazio di dibattito collettivo sulla cultura quando accadono cose come questa. Perciò ho strappato la mia distinción per la cultura nazionale e ho rinunciato a essere membro dell’UNEAC.
– Alcuni artisti all’interno del paese ti hanno sostenuto nelle ultime settimane, come il caso del pittore Pedro Pablo Oliva, mentre altri come Lázaro Saavedra hanno criticato aspetti della performance e la stragrande maggioranza è rimasta in silenzio. Come vedi l’atteggiamento del mondo intellettuale e artistico cubano in merito all’accaduto?
Innanzitutto è importante dire che tutti quanti hanno il diritto di reagire come vogliono e a non essere giudicati per questo. Ora, benché a Cuba sappiamo che esiste una politica culturale di molti anni nella quale si stabiliscono certi limiti invisibili che la gente sa di non dover oltrepassare perché ci saranno delle conseguenze, è anche vero che in un luogo in cui fanno pressione per definirti, a volte il silenzio è il più articolato degli argomenti. Io ho avuto una risposta più calda e d’appoggio da parte di molti artisti e di persone in strada che nemmeno conosco.
– Sei stata disposta, in qualche momento, a cambiare la location della performance e a non realizzarla a Piazza della Rivoluzione?
Per me la location nella Piazza era addirittura problematica dal punto di vista estetico. Io avevo problemi con Piazza della Rivoluzione, perché a livello simbolico è piuttosto abusata, è un simbolo che è stato usato tanto…, che nemmeno rappresenta il cubano medio, ma i grandi poteri del Governo. Di farlo in Piazza lo avevo scritto nella lettera a Raúl, e pubblicata da 14ymedio il 18 di dicembre, più come metafora. Avevo anche pensato a un luogo come l’Avana Vecchia che è dove si trova gente di ogni tipo, dove c’è il popolo. Ho proposto altre location, come la strada di fronte all’edificio di arte universale del Museo di Arte e lo spazio tra il Museo Nazionale di Belle Arti e il Museo della Rivoluzione, ma non sono state accettate.
– Qual era la proposta del Consiglio Nazionale di Arti Plastiche?
"Rubén del Valle ha insistito che si riservava il diritto di ammissione, in modo da non permettere a ‘dissidenti e mercenari’ di entrare"
Mi hanno proposto di farlo all’interno del Museo di Belle Arti nell’edificio di Arte Cubana. Ho detto a Rubén del Valle di no, in primo luogo per un problema estetico. Non aveva senso ripetere la stessa opera del 2009, così gli ho comunicato che cinque anni dopo non era all’interno dell’istituzione che dovevo fare una cosa così, ma che dovevo conquistare le strade. Ho proposto allora di farlo sulla scalinata d’ingresso del museo, ma lui ha insistito che dovevo restare all’interno e che si riservava il diritto di ammissione, in modo da non permettere a “dissidenti e mercenari” di entrare. Si è vantato del fatto che gli oppositori rappresentassero solo lo 0,0001% della popolazione cubana, al che gli ho risposto che io ero stata molte volte lo 0,0001% di qualcosa e che era una cosa molto buona, perché è necessario che esistano anche le minoranze.
– Ti aspettano a Madrid per presentare un’opera a Arco 2015, ma probabilmente non farai in tempo. Cosa esporrai lì?
È, come tanti altri progetti che ora sono fermi e non verranno realizzati, qualcosa di predisposto da molti mesi, quasi un anno. Si tratta di un’opera che avevo già realizzato a Cuba, nella quale io mi vesto come un Nkisi, un’icona religiosa africana a cui la gente mette dei chiodi per esprimere un desiderio. In cambio, gli si promette qualcosa che si dovrà compiere, altrimenti il suo spirito verrà a farsi ripagare la promessa. La gente lo rispetta molto, perché si crede che sia uno spirito molto forte. Nel 1998 mi vestii così, andai per le strade dell’Avana Vecchia e si formò una specie di processione. Allora volevo rappresentare il concetto delle promesse fatte al popolo e mai mantenute. Il vestito era rimasto come residuo oggettuale e ora è in possesso di una galleria di Madrid che aveva in progetto di ripararlo proprio lì, prima della mostra, perché si era danneggiato durante il trasporto. Ma poiché so già che non riuscirò ad arrivare, ho chiesto agli organizzatori di invitare gli spettatori della mostra a provvedere loro stessi alla riparazione, mettendoci i chiodi e facendo le loro richieste.
– Artista o artivista?
Faccio arte politica. Per me esiste una chiara divisione nell’arte, da un lato ciò che è rappresentazione perché commenta, e dall’altro, l’arte che lavora sul politico perché vuole cambiare qualcosa. Faccio un’arte che fa propri gli strumenti della politica e tenta di creare momenti politici, un’arte attraverso la quale si parla al potere direttamente e con il proprio linguaggio. Ad esempio, ho avuto una scuola (Cattedra Arte di Condotta) per sette anni, perché l’educazione è uno dei pilastri a lunga scadenza dei politici, ho fatto un periodico per vent’anni (Memoria de la Postguerra) per “prendere” i mezzi come fanno loro e ora mi spettava la strada, le piazze e i luoghi che loro credono appartenere esclusivamente al potere.
"L’artivismo è una variante dell’arte politica che non si accontenta di denunciare, ma cerca di trovare soluzioni per cambiare un po’ la realtà politica in cui si vive"
L’artivismo è una variante dell’arte politica della quale mi sento parte, poiché cerca di cambiare le cose, non si accontenta di denunciare, ma cerca di trovare soluzioni per cambiare un po’ la realtà politica in cui si vive.
– Credi che dopo il 30 dicembre sia più vicino un Occupy Wall Street in Cuba?
Questo è ciò che più temono. Persino ai diversi incontri che ho avuto con le autorità culturali e ufficiali mi hanno detto che io volevo fare qui lo stesso che era accaduto nelle piazze ucraine. Questa è la loro grande ossessione. La cosa ironica è che Occupy Wall Street sembra loro geniale quando accade là, negli Stati Uniti, ma mettono in chiaro che qui non permetteranno di usare le piazze per qualcosa del genere.
– Qualcuno ha visto nella tua convocazione in Piazza un atto che avrebbe potuto intralciare il ristabilimento delle relazioni tra Cuba e gli Stati Uniti. Lo percepisci così? Che ne pensi di questo processo?
È molto contraddittorio, perché da un lato le autorità di qui mi dicono che ciò che faccio non importa a nessuno e dall’altro mi accusano che le mie azioni potrebbero spezzare il futuro del paese. Ti fanno sentire senza importanza, ma anche che porti il peso della colpa di ciò che accade. È molto ingenuo pensare che trattative che durano tra due Governi da 18 mesi, con tanti interessi nel mezzo, possano andare perse a causa di una performance… non ho un ego così sproporzionato.
"È molto ingenuo pensare che trattative che durano tra due Governi da 18 mesi, con tanti interessi nel mezzo, possano andare perse a causa di una performance…"
Personalmente, mi sembra che tutto ciò che è pace sia il benvenuto. Il problema è che si fa solo politica di proprietari a breve termine e non politica legislativa a lungo termine. Tutti si domandano se si toglierà o non si toglierà il “blocco” e questo è un processo molto complesso nel quale si dovranno negoziare molti dettagli, anche tecnici. Per me, ciò che conta sono le possibilità che esistono oggi, perché le relazioni diplomatiche hanno iniziato a ristabilirsi e perché esiste un dibattito serio riguardo a togliere il “blocco”, affinché si ripensi al progetto di nazione da uno spazio collettivo in cui partecipino tutti i cubani, e di questo si tratta con #YoTambienExijo.
È il momento di chiedere la decriminalizzazione della diversa opinione, di creare un’altra politica con la stampa e i mezzi di comunicazione, di legalizzare le associazioni civili e i partiti politici, di rivedere la Costituzione, di permettere che noi cubani siamo cittadini attivi e non aspirare soltanto a farci essere consumatori passivi.
E bisogna anche assicurarsi che il beneficio arrivi a tutti. I cubani sono molto indifesi, soprattutto quelli che sono rimasti a Cuba. Senza che si rivedano e cambino le leggi, senza un’alfabetizzazione civica, senza che le istituzioni incomincino a rispondere no al Governo ma agli interessi dei membri delle loro organizzazioni, senza che ci siano spazi di critica non istituzionalizzata… non è possibile impedire che arrivi, ad esempio, una grande multinazionale che maltratta i lavoratori, che non li paga degnamente o non permette loro di avere un sindacato che li protegga. È una responsabilità del Governo preparare i cittadini a ciò che avverrà ed emettere leggi che li proteggano, ma sembrano essere così concentrati a mantenersi al potere che non riescono a vedere quanto importante sia oggi dare potere ai cubani medi. A Cuba abbiamo imparato molto bene i nostri doveri ma non i nostri diritti. È arrivato il momento che il cubano medio esiga i suoi diritti.
Yoani Sánchez
(da 14ymedio.com, 4 febbraio 2015)
Traduzione di Silvia Bertoli