Alberto Moravia ebbe un’immagine felice per descrivere l’ispirazione artistica. La paragonò alle pale di un ventilatore che si muovono così vorticosamente che chi le guarda non le distingue più.
Voleva dire che l’ispirazione è una successione di processi razionali, che un buon critico potrebbe individuare uno per uno, ma così rapidi, così strettamente conseguenti l’uno all’altro, che agli occhi di chi osserva l’opera d’arte e nella mente stessa dell’artista, sono invisibili. Ciò che si percepisce non è che un’impressione folgorante di bellezza e di verità (quando si tratti naturalmente di una vera opera d’arte!).
Il nome del figlio, una commedia di Francesca Archibugi, mi è sembrato in parte “ispirato”, in parte il frutto di processi razionali meno vorticosi. Si avvertono a volte gli schemi adoperati, gli intenti di dimostrare una tesi; e l’impressione di verità ne risulta diminuita.
Il film è il libero adattamento di una commedia francese, scritta per il teatro, intitolata: Le prénom, dalla quale fu già tratto un film francese uscito in Italia con il titolo: Cena tra amici.
La trovata intorno a cui ruota la prima parte del racconto, è molto bella, capace di gettare una luce rivelatrice su un intero gruppo sociale.
L’ambiente in cui è collocata la vicenda è formato in gran parte dalla sinistra cosiddetta “radical-chic”. Si tratta di un gruppo di persone piuttosto agiate, perlopiù intellettuali; che per il fatto stesso di dichiararsi di sinistra si ritengono indubbiamente dalla parte dei giusti, anche se poi le loro convinzioni politiche restano di fatto inoperanti, tutti adagiati come sono sul loro benessere e sui loro privilegi.
La trovata riguarda il nome che dovrà essere dato al figlio di una coppia del gruppo. Durante una cena, il padre, per burla, dichiara che lo chiamerà Benito. La scelta viene subito tacciata di qualunquismo, di indifferenza alla memoria delle leggi razziali, anche se il burlone protesta che il nome di Benito non è stato scelto in omaggio al dittatore, ma al protagonista di un romanzo di Melville.
L’efficacia satirica dell’episodio proviene dalla sproporzione tra il livore di cui diventa oggetto il padre del nascituro, tra l’esibizione di buona coscienza degli accusatori (di uno in particolare), e la modestia del pretesto che ha scatenato tanta rabbia: perché si sa che i nomi, alla fine, sono purissimi accidenti ed è ridicolo fare di un nome la quintessenza del Male.
È evidente che in quella reazione si esprime invece la denegata cattiva coscienza, il malcelato senso di colpa, l’insoddisfazione di chi, pur di sinistra, si sa pienamente integrato e inerte.
(Stranamente, gli autori del film depotenziano la trovata attenuando il senso di eccesso di quella reazione; spiegandola attraverso un antefatto: la storia familiare di due fratelli del gruppo fu segnata da un padre ebreo perseguitato ai tempi del fascismo!).
La seconda parte del film fa invece affiorare il razzismo latente di alcuni dei personaggi: nei confronti di una ragazza del popolo, entrata a far parte del clan tramite un matrimonio, certo meno colta degli altri ma che pure ha preteso di scrivere un romanzo; e poi di un uomo maturo, trattato con un certo paternalismo, con una sottile irrisione, perché ritenuto un omosessuale “velato”.
L’indagine dei comportamenti resta tutt’altro che priva di finezza. Ma qui la tesi è più scoperta e più facile.
Gli attori – Luigi Lo Cascio, Alessandro Gassman, Micaela Ramazzotti, Valeria Golino e Rocco Papaleo – ristretti nei limiti di una certa convenzionalità dei loro personaggi, sono capaci di trovare note di verità.
Gianfranco Cercone
(da Notizie Radicali, 2 febbraio2015)