Pasturo, 20 giugno 1935
Caro Vitto,
…avrei voluto scriverti subito, appena tornata su, martedì scorso, perché non m’era piaciuta affatto la tua faccia “spettrale”, la tua tensione inquieta. Ma poi, qui, con Paolo Treves e con Remo, le ore mi son volate via; oggi, finalmente approfitto della solitudine (Remo è venuto a Milano con la mamma per vedere del suo passaporto; Paolo se ne è già andato da qualche giorno) e vorrei scriverti un po’ a lungo, supplire in qualche modo alla cara abitudine della tua visitina quotidiana, di cui ho tanta nostalgia. Non so; da tutti questi giorni che ho vissuti non riesco a trarne alcun senso. Sono qui, in questa pausa di silenzio, come un velo d’acqua sospeso su di un masso in mezzo alla cascata, che aspetta di precipitare ancora. È come se avessi tagliato tutti i legami col mondo di fuori, a beneficio di un mondo che ha già la sua data di morte, che forse non esiste neppure come mondo a sé, ma è solo il morire di tutto un lungo spazio di vita. Non sai che cosa spietata è la convivenza quotidiana; quell’essere giorno per giorno di fronte, a misurare le proprie diversità delle piccole realtà materiali, come sminuzza i sentimenti, come seppellisce i concetti idealizzati. Che grande prova del fuoco. Benefica – sai: e benedetta, se serve a smantellare gli idoli. Ma che urto, contro la terra.
Quanti spaventosi abissi tra Remo e me. Di gusti, di sensibilità; di moralità soprattutto. E questo e soprattutto è terribile: la mia assoluta inadattabilità alla vita pratica, il frantumarsi di tutta la mia unità di vita quando mi si porti fuori dell’atmosfera irreale in cui m’ha cresciuta la solitudine. Ma io non so quanta ragione abbia Remo dicendo che vuol fare di me una vera donna: io credo e temo che una vera donna non sarò mai, che anzi, cercando malamente di essere, finirei col perdere la parte più vera e meno banale di me.
Forse il mio destino sarà davvero di scrivere dei bei libri di fiabe per i bambini che non avrò avuti.
Mi sento più che mai Tonia Kroger, come mi chiamava il povero Manzi, come ci siamo sentiti – insieme – quella sera da Alberto. Ti ricordi Vittorio? Io quella sera ho resistito solo perché avevo te vicino e fin che vivrò mi ricorderò di quello che mi sei stato per quelle ore. Ma tu un giorno mi hai detto una cosa che oggi mi rimorde terribilmente; mi hai detto che io sono molto nobile, che non so cosa sia la volgarità. Se mi vedessi oggi, Vittorio: che spacco tremendo è avvenuto in me, che crollo. Da una parte l’Antonia delle belle poesie e dei buoni principi, dall’altra un essere senza volontà e senza centro, che ascolta senza reagire i discorsi più brutali e quando gli occhi che ha di fronte diventano cinici – non più né fraterni né pietosi – non si alza, non va via, ma resta lì come ipnotizzata ad aspettare quelle carezze che sa che le vengono date – non per pietà – ma per gioco, uno stupido gioco che non costa nulla e può costare una vita.
Vittorio, tu sei la sola persona a cui oso confidare questa vergogna. E non so quello che succederà. Questa lettera mi sembra quasi il testamento dell’Antonia che hai conosciuto tu, il grido dell’acqua prima di cadere. E poi no, certamente no. Perché io sono troppo vile per andare fino in fondo. E chi gioca è in fondo troppo serio e onesto per volere che sia un gioco mortale. Ma è questo decadere di tutta me stessa, questo franare senz’argini che mi atterrisce e non vedo nessuna salvezza. Forse, se potessimo essere ancora vicini, credere insieme a tante cose che ci sono care in comune, sarebbe diverso. Hai letto “Bisogno di una sorella” di Civinini? Ecco, tu sei stato così per me: quell’essere di sesso diverso, così vicino che pare abbia nelle vene lo stesso tuo sangue, che puoi guardare negli occhi senza turbamento, che non ti è né di sopra né di fronte, ma a lato e cammina con te per la stessa pianura. Con te ho vissuto la morte del povero Gianni, una sera; abbiamo cullato in un treno domenicale le nostre malinconie simili e diverse. Un giorno abbiamo ascoltato June in January e le tue poesie mi hanno fatto piangere, non forse per quello che dicevano, ma per il mondo di battiti che mi facevano nascere dentro e quella certezza che, solo la tua poesia sapeva crearmi, quel mondo e solo quel mondo era la mia e più pura vita.
Vitto caro, adesso tu hai i tuoi esami ed io non oso domandarti di rispondermi; avrei tanto bisogno mi si parlasse del mondo di fuori, per salvarmi da questo mondo insidioso ed effimero che mi porta via da me stessa con braccia violente. Ma forse la settimana ventura verrò a Milano per un giorno e potremo vederci. Se prima di allora puoi scrivermi una riga – anche solo una riga – te ne sarei così grata: ho tanto bisogno della tua amicizia, caro Vittorio. Perdonami se mi aggrappo così. Raccontami di te, di Milano, di Brescia: mandami quello che hai fatto, anche se non finito. Io non ho scritto più niente. Sono proprio Tonio Kroger nella tempesta.
Addio Vittorio. Salutami tanto la tua mamma e non dimenticarmi.
Io ti abbraccio con grande affetto.
Antonia
Antonia Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938
A cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino
Con un saggio di Marco Dalla Torre e postfazione di Tiziana Altea
Ancora, 2014, pp. 392, € 26,00
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