Pasturo, 8 agosto 1933
Mia cara cara Elvira,
vorrei che tu mi perdonassi il silenzio di tutti questi giorni. Ma ho aspettato di avere le copie delle mie fotografie per potertele mandare. Non sono gran che: ma per completare i ricordi servono anche loro. Come mi sia passato il tempo fino ad oggi, non te lo saprei dire: so che più le giornate di Breil si allontanano, e più mi sembrano al di là di ogni misura, un crepaccio azzurro nella vita uniforme. Ho letto e riletto il libro del Rey: gli ultimi capitoli sono meravigliosi. La precipitosa discesa notturna dalla vetta al rifugio è indimenticabile: e così la descrizione degli abissi di Tiefenmatten. Un po’ in ritardo, mi ha preso la malattia del Cervino: e un popolo di creste, di spigoli, di pareti la sonnolenza borghese di queste montagne. Sabato notte, con una luna che inondava tutta la valle, sono salita sulla Grigna, ed ero lassù prima dell’alba, sola sulla vetta, sotto il sorriso gelido delle ultime stelle.. A poco a poco, rompendo con gli occhi intenti la nebbia, ho visto il nostro Cervino sorgere dalla notte e chiamare a sé i primi raggi del sole ed indorarsene. Allora ho pensato che voglio camminare molto e imparare a non stancarmi e prepararmi con tutte le mie forze, per poter andare almeno fino alla Capanna, e vedere di lassù un tramonto ed un’alba. E mentre ero lì immobile, sull’erba madida di guazza, rosata dal primissimo sole, e non mi giungeva altro suono che quello delle campane, sospinto verso l’alto, a ondate, pensavo alle nostre sere di Breil, alla voce del tuo strumento che parlava lentamente coi lumi dei pastori sulla montagna, con le stelle che si levavano dal nevaio e si coricavano tra le rocce.
Grazie, Elvira, ancora per quelle sere. Grazie per tutta la tua bontà. Avrei voluto poterti mandare qualche cosa di mio, per te; ma è strano: in questi giorni non mi nascono nell’anima che note e accordi di temi lontanissimi, smarriti. E delle cose di Breil, ancora niente. Eppure… “un jour viendra”. Tu, scrivimi di te, ti prego mandami quella cosa tua che non ho potuto leggere, nel ritorno: Ma non pensare più di finire. Che la montagna è la prima che ci insegna a durare, nonostante gli squarci e gli strazi.
Che la nuova montagna ti sia prodiga di forza e di sole, che tutti i tuoi giorni siano sereni.
Antonia
P.S. – A Portorose non vado. Resterò qui per tutta l’estate.
Antonia Pozzi, Ti scrivo dal mio vecchio tavolo. Lettere 1919-1938
A cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino
Con un saggio di Marco Dalla Torre e postfazione di Tiziana Altea
Ancora, 2014, pp. 392, € 26,00
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