L’uomo qualunque, l’uomo comune, l’uomo della strada, l’uomo che ci passa davanti soltanto è, per Seneca, quell’uomo che appartiene alla «folla». Il filosofo di Cordova visse fra il 5-4 a.C. e il 56 d.C. allorquando, nella città di Roma, «con un solo ferro e d’un solo colpo» (Tacito, Annali XV, 45) si fece tagliare le vene delle braccia a seguito della condanna neroniana sulla sua vita. Lucio Anneo Seneca scrisse, nel corso della sua esistenza, diverse opere ed ebbe modo di conoscere a fondo la realtà del suo tempo (anche nella veste di consigliere del sunnominato imperatore Nerone). Al 49 a.C. (o forse al 62 a.C.) risale questo «protrettico in forma di diatriba» (dalla prefazione di Alfonso Traina) che ha per titolo La brevità della vita (adesso pubblicato in una buona edizione, riveduta ed aggiornata, dalla Bur, XVIII ed., 2004).
L’uomo della «folla», in quest’opera, è preso in esame da Seneca per stigmatizzarne le caratteristiche ed i comportamenti; ivi compreso tutto quell’universo di cose che oggi noi chiameremmo “i tic”.
Ma l’argomento centrale di questo dialogo è comunque il tempo. «Tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo» per il tipo d’uomo che egli sta analizzando dice Seneca.
E non di tempo pieno e vitale si tratta, ma di tempo vuoto, di tempo morto, tempo inutile, tutto quel tempo del quale questo tipo di uomini «non ne hanno coscienza, perché è immateriale, perché non cade sotto gli occhi, e perciò è [da essi valutato]… pochissimo, anzi non ha quasi prezzo». Tutti quanti costoro, insomma, non vivono:essi ammazzano il tempo.
Di contro a questi “affaccendati” sta però il sapiens, il saggio, colui che dedica il suo «tempo alla saggezza». Solo costui, per Seneca, «vive» davvero.
La parabola della filosofia Stoica si compie così del tutto in quell’esortazione che Seneca alla fine del dialogo indirizza al suo interlocutore, quel Paolino che «gli studiosi sono convinti… sia il padre di Pompea Paolina, la giovane moglie di Seneca» (G. Reale, Introduzione alla Brevità della vita, da Seneca, Tutte le opere, Bompiani, 2000).
«Ritirati finalmente in un porto più tranquillo» dice dunque Seneca a Paolino; «prenditi un po’ del tuo tempo anche per te»; e ancora: «rifugiati in queste occupazioni più tranquille, più sicure, più grandi». Nella “dialettica esistenziale” fatta scendere in campo da Seneca in questo dialogo, come afferma giustamente Traina, la saggezza assume finalmente il ruolo di “polo positivo”.
La saggezza è il «porto requie» a cui l’uomo giunge dopo il tanto esser stato sballottato dalle tempeste di quel «viaggio della vita ininterrotto e velocissimo, che percorriamo con lo stesso passo svegli e dormienti». Sarebbe a dire: che percorriamo comunque; che in ogni caso noi dovremo attraversare; che non ci è permesso di evadere.
E lo percorriamo «con lo stesso passo» proprio perché il “passo” in questione è appunto l’identico tempo: unico per ognuno e per tutti; appunto: «svegli e dormienti».
Ma guai se questo «viaggio della vita» lo si transita da “affaccendati”. Perché anche e soprattutto per lo sfaccendato «sarà lì la morte, per la quale, voglia o no, deve aver tempo».
Gianfranco Cordì