In memoria del soldato della Grande Guerra Songini Silvio (1895-1977), padre di mia madre, che con i suoi racconti più di ogni libro o film mi ha fatto comprendere l’orrore e l’assurdità della guerra.
(24 maggio 2005) – Il 24 maggio 1915 Silvio, soldato di fanteria dell’esercito italiano, raggiunse il fronte. L’Italia era entrata in guerra a fianco dell’Intesa, contro gli ex alleati degli Imperi Centrali. In realtà Silvio si era fatto l’idea, anche sulla base di quanto gli avevano ripetuto durante i pochi mesi di addestramento in quel di Cremona, che l’avventura militare italiana sarebbe stata di breve durata: qualche settimana o qualche mese al massimo, durante i quali l’Italia avrebbe fatto valere le sue ragioni senza troppe difficoltà e avrebbe finalmente conseguito quel rango di potenza europea al quale da tempo aspirava. Poche settimane dunque, con qualche scaramuccia poco più che simbolica. Invece per Silvio, così come per centinaia di migliaia di giovani italiani come lui ignari di ciò che li attendeva, stava per cominciare l’inferno. Un inferno fatto di fango, di sangue, di bestemmie, di imprecazioni e di morte. Un inferno di cieca e sanguinosa follia che sarebbe durato tre anni e mezzo, dal quale egli sarebbe uscito miracolosamente vivo, ma trasformato come non è neppure possibile immaginare.
Fino ad allora aveva sempre vissuto in valle con i genitori: il lavoro da contadino, il succedersi delle stagioni, la semina e il raccolto, la transumanza tra il fondovalle e gli alpeggi della montagna. Non conosceva il mondo. Non aveva mai viaggiato. Soltanto occasionali letture gli avevano permesso di spostarsi nel tempo e nello spazio sulle ali della fantasia. Il 24 maggio 1915 dunque, egli marciava con i suoi compagni verso la sconosciuta “frontiera”. Era una bella giornata primaverile e la compagnia, comandata da un capitano deciso e sbrigativo, sostò a mezzogiorno in una radura, tra latifoglie e conifere, apprestandosi a consumare il rancio. I soldati avevano fame. Posarono a terra i fucili, sistemarono le loro cose e, non appena il rancio fu servito, affondarono i cucchiai nelle gavette. Mangiarono avidamente, come possono fare ragazzi di vent’anni dopo una lunga marcia. Le gavette si stavano svuotando rapidamente. C’era silenzio. D’improvviso un sibilo acuto, accompagnato da una secca esplosione, attraversò l’aria. Senza un gesto e senza una parola un soldato, il barbiere della compagnia, si accasciò a terra rovesciando la gavetta e abbandonando il cucchiaio sull’erba della radura. Un foro dal quale colava un po’ di sangue gli bucava la fronte. Un proiettile proveniente da chissà dove l’aveva centrato, uccidendolo sul colpo. Il capitano gridò con voce rabbiosa:
– Baionetta in canna!
Silvio ebbe modo di notare che molti dei suoi compagni, per il marcato tremito delle mani, non riuscivano più nemmeno a compiere la semplice operazione di inastare la baionetta sulla canna del fucile.
– Baionetta in canna! – ripeté il capitano.
Le illusioni erano finite: cominciava la guerra. Il fante Silvio e i suoi compagni capirono subito che non si sarebbe trattato, come era stato fatto loro credere, di un’avventura intrigante e passeggera. Giorno dopo giorno, assalto dopo assalto, ritirata dopo ritirata, strage dopo strage, avrebbero imparato sulla loro pelle cos’era la guerra. L’addestramento in quel di Cremona era servito a poco. Al fronte sarebbero stati il sangue e le sofferenze. Silvio era nato a Roma, dove suo padre si era trasferito dalla Valtellina per aprire un negozio, ma pochi mesi dopo la sua nascita la famiglia era rientrata al paese, abbandonando definitivamente la capitale. Egli pertanto non poteva ricordare niente di Roma. Ma per il fatto di essere nato sulle rive del Tevere era stato inserito in una unità dell’esercito formata in gran parte di ragazzi meridionali: abruzzesi, campani, siciliani, pugliesi… Egli si trovò pertanto a combattere fianco a fianco con dei compagni dei quali non comprendeva il dialetto (così come loro con comprendevano il suo) e che a volte non sapevano neppure esprimersi in lingua italiana. Molti erano analfabeti. Egli leggeva loro le lettere provenienti da casa e, nei momenti di tregua dei combattimenti, scriveva le risposte per chi non lo sapeva fare. Scriveva sotto dettatura pagine piene di angoscia e di disperazione, nelle quali però compariva di tanto in tanto qualche espressione di speranza e di amore. Ma la guerra non aveva pietà di nessuno. Nelle trincee si viveva (e si moriva) nell’umidità e nel fango. In certi periodi non c’era neppure la possibilità di cambiarsi. Per diversi mesi Silvio non poté togliersi mai neppure le scarpe. Quando finalmente poté farlo i suoi piedi erano sanguinanti e ricoperti di piaghe. Intanto già molti dei suoi amici erano caduti: la morte se li era portati via prima che potessero cambiare le calzature.
Al fronte colpi ed esplosioni scandivano le ore del giorno e della notte. Non si dormiva quasi mai e quando lo si faceva ci si appoggiava per pochi momenti alle pareti di terra della trincea, oppure ci si sdraiava nel fango. La morte andava e veniva lungo le linee con la sua falce. Le cannonate austriache erano tremende: una volta un solo colpo uccise 65 fanti e ne ferì gravemente una decina di un gruppo di novanta uomini. Silvio fu tra i pochi superstiti. Egli venne soltanto sfiorato da una scheggia che gli provocò una lieve ferita all’avambraccio: poco più di un’abrasione. Ma quando cercò tra i morti il commilitone pugliese con il quale aveva stabilito una sincera amicizia, non lo trovò più. La cannonata l’aveva letteralmente polverizzato. Non fu possibile neppure ritrovare la piastrina di riconoscimento, quella che ogni soldato portava con sé sotto l’uniforme, e che era d’acciaio. Polverizzata anche quella. Quando sarebbe finito quell’inferno? Giorno e notte preghiere e imprecazioni si levavano dalle trincee. Ai rosari recitati per fede o per disperazione seguivano interminabili sequele di bestemmie e di maledizioni. E la figura più maledetta era quella più amata, ossia quella della madre, colpevole di aver messo al mondo figli destinati a quell’inferno.
Sia pure in una situazione tanto spaventosa Silvio aveva capito che per cercare di sopravvivere era necessario non abbandonarsi alla disperazione. Aveva ad esempio compreso che quando si balzava dalle trincee per andare all’assalto non bisognava esitare perché in quel caso la paura sarebbe stata fatale. Gli austriaci infatti, prima di fare fuoco con le mitragliatrici, aspettavano che venisse avanti il grosso della truppa, e quasi sempre quelli che uscivano più tardi venivano inesorabilmente falciati. Del resto gli italiani facevano la stessa cosa, aspettavano cioè di colpire al momento buono, quando era a tiro il maggior numero di nemici. Così, non appena il capitano ordinava l’attacco, bisognava lanciarsi senza esitazione oltre le linee se si voleva avere qualche speranza di salvezza. Anche perché per quelli che esitavano, che tremavano, che piangevano, che impazzivano per la paura, che non volevano saperne di uscire dal riparo della trincea, la rivoltella dei comandanti aveva sempre un colpo in canna. Un colpo alla nuca poneva fine a tante storie. Dei caduti sotto i colpi del cosiddetto “fuoco amico” mai nessuno conoscerà il numero.
Anche Silvio rischiò una volta, per una disattenzione, di fare una misera fine. Aveva avuto l’incarico di ritirare la corrispondenza destinata al comando e ogni giorno scendeva attraverso il bosco per ritirare i dispacci e portarli su, al comandante della compagnia. Ma un giorno, anche perché nel frattempo la linea del fronte era cambiata, smarrì la strada. Senza rendersene conto si trovò a un passo dalle linee nemiche (vedeva e sentiva distintamente gli austriaci parlottare tra loro) con l’importantissima corrispondenza tra le mani. Se la posta fosse finita in mani austriache egli sarebbe stato bollato come traditore e condannato a morte. Se qualcuno dei nostri l’avesse visto anche a distanza nel punto in cui si trovava, pensando che volesse consegnarsi e tradire, gli avrebbe sicuramente sparato. Nel migliore dei casi gli austriaci l’avrebbero fatto prigioniero, ma il marchio di traditore non gliel’avrebbe tolto nessuno. Fortunatamente non successe niente di tutto questo. Silvio tornò indietro velocemente e ritrovò la strada. Nascosto dagli alberi, balza dopo balza risalì l’altura e consegnò “la posta”. Il capitano gli domandò semplicemente le ragioni dell’insolito ritardo. E tutto finì lì. Non ci fu arresto né fucilazione.
Il soldato di fanteria Silvio, classe 1895, avrebbe dovuto ancora vedere tanti compagni cadere, avrebbe dovuto ancora camminare a lungo nel fango delle trincee, in quelle trincee nelle quali i feriti e i moribondi imploravano la grazia di un colpo di rivoltella per mettere fine alle loro pene. Avrebbe dovuto ancora marciare sull’altipiano sulle ossa dei compagni morti in combattimento, avrebbe dovuto ancora cadere prigioniero (avvenne sul finire del 1917, dopo quasi tre anni di guerra) e quindi raggiungere i diversi luoghi della sua prigionia: l’Austria, la Cecoslovacchia e infine la città di Zitomir, in Ucraina. Là sarebbe rimasto fino alla fine della guerra, cioè fino al novembre del 1918.
– Vidi che quelle popolazioni, gli abitanti dell’ormai dissolto impero austro-ungarico, erano letteralmente ridotte alla fame. Non avevano più niente di niente, né per loro né per noi. Tuttavia ci hanno sempre trattato con umanità. Soffrivamo insieme e insieme speravamo che quel Calvario finisse.
Il Calvario finì e Silvio poté tornare a casa, poté rivedere i suoi genitori, i suoi amici e la sua valle. Ma lui non era più lo stesso. Era dimagrito, invecchiato, sfinito fisicamente e moralmente. Di quel ragazzo allegro, semplice, ingenuo, pieno di speranza e di buona volontà, partito un giorno da casa “per andare a fare il soldato”, non c’era più traccia.
Gino Songini
(da 'l Gazetin, giugno 2005)