Anni fa, in occasione del 90° dell'entrata in guerra dell'Italia nel primo conflitto mondiale, ebbi a scrivere sul Gazetin (“Il Piave mormorava...”, giugno 2005) una pagina che si basava sui ricordi del combattente della Grande Guerra Silvio Songini, mio nonno. Soldato di fanteria arruolato in una unità dell'esercito composta da meridionali (era nato a Roma), aveva combattuto per quasi tre anni al fronte, soffrendo nel fango e nel sangue delle trincee, tra preghiere e disperazione. Egli conservava nella memoria quei ricordi terribili e, come in una storia a puntate, li riviveva e li faceva rivivere con narrazioni lucide e appassionanti. Tra i tanti episodi raccontati non mancavano quelli di particolare atrocità: il soldato moribondo ma ancora cosciente calpestato dai commilitoni in fuga dentro la trincea (non c'era altro passaggio e gli scarponi chiodati finivano sul petto del moribondo), la squadra di soldati annientata da un solo colpo di cannone austriaco, il ragazzo più giovane della compagnia sopravvissuto al colpo ma trovatosi privo di gambe, il terreno del Carso ricoperto delle ossa dei caduti, le lettere di disperazione che, nelle pause dei combattimenti, lui scriveva sotto la dettatura dei compagni analfabeti, ecc. Ma il nonno ricordava spesso anche alcuni aspetti della guerra poco considerati nei libri di storia, come ad esempio l'idea formatasi tra i soldati e tra la gente che il conflitto sarebbe stato di breve durata e che in ogni caso l'intervento dell'Italia a fianco dell'Intesa avrebbe costretto gli Imperi Centrali (Germania e Austria-Ungheria) a una resa rapida e definitiva. Come è noto le cose non andarono così. Per inciso sia permesso ricordare che gli stati tedeschi avevano a loro volta attaccato convinti della loro superiorità militare e che non avrebbero avuto problemi a sbaragliare russi e francesi. Anche questa previsione si rivelò del tutto sbagliata. Sui diversi fronti nessuno avanzava, nessuno cedeva.
Ma torniamo ai ricordi del nonno. Fatto prigioniero dagli austriaci alla fine del 1917 e portato prima in Austria, poi in Cecoslovacchia e infine in Ucraina, nella città di Zitomir, egli poté rendersi conto che le risorse degli alleati germanici erano ormai ridotte al lumicino. Essi non avevano più niente di niente e per loro diventava sempre più difficile rifornire gli uomini al fronte. Mentre Francia e Inghilterra potevano contare sulle illimitate risorse messe a disposizione dagli americani – gli Stati Uniti erano entrati in guerra nell'aprile del 1917 – i tedeschi si trovavano ormai privi di ogni cosa e non avrebbero potuto continuare a lungo la guerra. Così avvenne.
Ma uno degli aspetti che il nonno rimarcava ogni volta nei suoi racconti e del quale io non trovavo traccia sui libri di scuola era quello del gran numero di soldati italiani uccisi dagli italiani stessi. Uomini contro, come dice il titolo di un vecchio film. Decimazioni, uccisioni per sorteggio di fronte a mancanze vere o presunte delle quali non si trovava il colpevole, processi sommari conclusi con la condanna a morte e, ancor più, “fucilazioni sul posto” di soldati colpevoli di piccole mancanze, o magari soltanto di avere paura, di esitare, di impazzire. Per loro, così come per quelli che, a giudizio dei capi, coi loro discorsi “demoralizzavano le truppe”, la rivoltella del comandante aveva sempre un colpo in canna. Un colpo alla nuca metteva fine a tante storie.
La storiografia più recente, italiana e straniera, aggiornata da studiosi finalmente liberi da remore ideologiche (cento anni non sono passati invano), sta facendo emergere una impressionante serie di casi atroci e assurdi fino all'inverosimile. Un gran numero di ragazzi, non solo italiani, ma soprattutto italiani, persero la vita e insieme l'onore soltanto perché incapaci di reggere al quotidiano orrore della guerra.
Fermiamoci un momento e consideriamo quanti casi di squilibrio psichico più o meno grave avvengono nelle fabbriche, nei cantieri o sui luoghi di lavoro in genere soltanto perché qualcuno non regge allo stress del lavoro quotidiano. Eppure si tratta di ambienti dove non scorre il sangue, dove non si uccide e non si viene uccisi. A volte bastano dei rumori assordanti, un lavoro ripetitivo, l'arroganza di un capo, a mettere in crisi le persone più deboli. A queste persone è necessario offrire aiuto e comprensione (anche se non sempre avviene). Ma per i soldati al fronte non c'era aiuto né comprensione. Per i nostri generaloni, ai quali abbiamo dedicato troppe vie, si trattava soltanto di carne da macello che si poteva sostituire con altra, per continuare quel massacro assurdo e disumano che papa Benedetto XV ebbe a definire una “inutile strage”.
Ora le nazioni che condussero il conflitto hanno cominciato a fare i conti con la memoria di quei caduti per mano “amica”, i ragazzi della mala morte, che non hanno trovato posto sulle lapidi dei paesi e delle città. Per loro nessun monumento, nessuna scritta, nessuna memoria, se non quella dell'ignominia e della vergogna. Uccisi due volte, verrebbe da dire, giudicati vigliacchi, traditori, disertori, anche quando non lo erano.
In Francia è stato avviato un percorso di riabilitazione di questi caduti troppo a lungo dimenticati o disprezzati. La stessa cosa stanno facendo le altre nazioni d'Europa che presero parte al conflitto. E l'Italia? Ancora una volta siamo buoni ultimi sulla strada della testimonianza civile. E allora sia resa lode al sindaco di Cercivento (Ud), un paesino della Carnia nel quale il primo cittadino, incurante della diffida delle autorità militari, ha voluto erigere un monumento a quattro alpini del battaglione Tolmezzo che, appunto durante la prima guerra mondiale, si erano rifiutati di condurre un attacco suicida e che vennero fucilati per questo. Esperti della zona, avevano semplicemente suggerito ai comandanti di attaccare gli austriaci durante la notte invece che in pieno giorno, sfruttando la conoscenza del terreno e la sorpresa. Non l'avessero mai fatto. Processati sommariamente come traditori, furono passati per le armi e additati all'universale disprezzo. E pensare che uno di loro, emigrato per lavoro in Germania, allo scoppio della guerra era rientrato in Italia “per servire la patria”. Non poté fare altro che gridare, mentre lo portavano al luogo dell'esecuzione: “Ecco il ringraziamento per quanto abbiamo fatto”.
Ma, notizia degli ultimi giorni, forse anche in Italia si sta muovendo qualcosa. Pare che il ministro della difesa Pinotti intenda esaminare il dossier relativo alla possibile riabilitazione di quei morti e di quei fuggitivi, questi ultimi da sempre definiti “disertori”, che non hanno mai trovato posto tra i nomi dei caduti e tra quelli dei combattenti della Grande Guerra. Staremo a vedere.
Personalmente, grazie alle memorie di mio nonno Silvio, io avevo già provveduto a riabilitare dentro di me i tanti poveri ragazzi caduti non per mano nemica ma per le vie brevi di giudici spietati che stavano al loro fianco. È ora che nella memoria degli italiani ci sia posto anche per loro, per i ragazzi della mala morte.
Gino Songini
(da 'l Gazetin, novembre 2014)