Valentina Ferri
Quando il leone si ciberà di paglia
Galaad Edizioni, 2014, pp. 200, € 13,00
“A scrivere non sono mai stato bravo, però a sognare sì” fa dire Valentina Ferri alla sua voce narrante, sia in apertura che in chiusura del romanzo Quando il leone si ciberà di paglia, dove l’Italiano si fonde con grande naturalezza a forme dialettali. Così Tonino arriva finalmente a sognare di aver infilato la mano nella buca dell’aspide, che non lo ha morso, in un mondo diventato ormai più giusto e buono, dove anche il leone non divora altri animali ma si ciba di paglia. E i sogni sono la proiezione del nostro stato d’animo.
È stato duro il percorso del ragazzino, in seminario più per volontà della madre che per scelta sua, perché da sacerdote abbia una via preferenziale – pensa la donna – per ottenere il perdono di Dio sulla famiglia. La madre ha emarginato il marito, umiliandolo agli occhi del figlio, e costringe il ragazzino, mite e bello, a vestirsi da donna e a dormire nel lettone con lei, solo perché lei avrebbe voluto una femmina. Tonino odia i momenti di ritorno a casa nei periodi di vacanza, incapace di ribellarsi, privo di una sana complicità col padre che è ormai una presenza silenziosa e quasi imbarazzante, uno spettatore muto delle molte forme di pazzia familiare.
Il seminario è il rifugio di Antonio. Ma anche quello è diventato “covo di serpenti velenosi” da quando qualcuno – un sacerdote rispettato – ha preso a fare richieste insolite agli adolescenti, che tacciono per vergogna e si tengono addosso il senso di colpa e di sporcizia. Qualche anima candida non regge a tanto e finisce vittima, lasciando una immagine indelebile della propria pena davanti agli occhi terrorizzati dei compagni. Sono consolazione ed aiuto le sane amicizie tra adolescenti, nate magari dopo una sincera scazzottata.
Sono i tempi di Paolo VI in visita all’Italsider, tempi di preti operai: per fortuna ci sono incontri che portano a consapevolezze su cui costruire una persona nuova, allora gli incubi se ne vanno e si comincia a sognare bene. Basta essere capaci di prendere le giuste distanze dai demoni – la madre, il sacerdote “perfiriuso” – ed avere chiaro quello che si vuole. E se lavorare è come pregare, anche “scrivere, che è lavorare” è un po’ come pregare.
Marisa Cecchetti