Nella cultura italiana di fine Novecento la poesia di Lucio Piccolo (Palermo, 1901 – Capo d’Orlando, 1969) è stata considerata “un caso”.
“Un caso” che meriterebbe maggiore attenzione perché le sue liriche – così come scrisse Giorgio Bassani nelle pagine introduttive al Il Gattopardo – «rappresentano», ancor oggi, «quanto di meglio si sia letto nel campo della lirica pura». Un caso determinato da contingenze particolari, attraverso le quali, Piccolo è venuto alla ribalta delle cronache letterarie ed ha interessato (per qualche tempo!) critici e intellettuali.
Sono arcinote le circostanze (legate al convegno letterario di San Pellegrino dell’estate del 1954, cui Piccolo partecipò accompagnato dal cugino Giuseppe Tomasi di Lampedusa) e ampiamente narrate nella prefazione di Eugenio Montale ai Canti barocchi (Mondadori, Milano, 1956: «…Mi trovavo dinanzi al barone Lucio Piccolo di Calanovella, scrittore finora inedito, sì, ma musicista completo, studioso di filosofia che può leggere Husserl e Wittgenstein nei testi originali, grecista agguerrito, conoscitore di tutta la poesia europea vecchia e nuova… Lucio Piccolo ha letto tous les livres nella solitudine delle sue terre di Capo d’Orlando, ma non segue alcuna scuola».
Guido Piovene, in una cronaca del convegno, narrò che lo sconosciuto letterato aveva inviato all’autore di Le occasioni le sue 9 liriche, «un libercolo stampato orrendamente da una tipografia di provincia», male affrancate e accompagnate da una lettera-programma che destò tanta curiosità: «…Mi permetto di inviarle alcune mie liriche che ho fatto stampare privatamente e che non metterò in circolazione. In esse, specie nel gruppo “Canti barocchi”, che più mi sta a cuore, era mia intenzione rievocare e fissare un mondo singolare siciliano, anzi precisamente palermitano, che si trova adesso sulla soglia della propria scomparsa senza avere avuto la ventura di essere fermato da una espressone d’arte. E ciò, s’intende, non per mia programmatica scelta d’un soggetto, ma per una interiore, insistente esigenza di espressione lirica. Intendo parlare di quel mondo di chiese barocche, di vecchi conventi, di anime adeguate a quei luoghi, qui trascorre senza lasciare alcuna traccia. Ho tentato non quasi di rievocarlo, ma di dar di esso un’interpretazione su ricordi d’infanzia».
Questa lettera, ripeto, suscitò perplessità e interesse negli studiosi e critici del tempo, ma solo lo scrittore Leonardo Sciascia, in un saggio del 1967, spiegò i punti oscuri della quasi dichiarazione di poetica del Piccolo così: «… Debbo dire che questa lettera a Montale, a me pareva che contenesse più Il Gattopardo che le liriche di Piccolo; e in questo senso ne ho scritto a Piccolo qualche mese fa. Mi rispose imprevedibilmente ma senza sorprendermi, che la lettera era stata scritta da Lampedusa. Questa piccola rivelazione conferma la genericità avvertita da Montale e spiega la ragione per cui la descrittività promessa o minacciata non trovasse riscontro nelle sue liriche. Avrebbe avuto riscontro ne Il Gattopardo, si può dire ora. Ma liquidato questo punto, puramente aneddotico, resta come luogo di più stretto rapporto tra Piccolo e Lampedusa, il tema di un mondo singolare siciliano ora sulla soglia della propria scomparsa; ma direi che è qui che si pone una fondamentale differenza. Lampedusa declina il tema nel romanzo, in un genere la cui storia è legata all’insorgenza e allo sviluppo di una classe nemica alla sua (…). Piccolo, invece, ha confidato il tema alla lirica…»
Leggendo i versi di Piccolo, infatti, emerge chiaro che l’essenza e la qualità emozionale e sensoriale delle immagini sono il frutto di una interiorizzazione dell’ambiente e del paesaggio siciliano sentito come parte dell’anima. I temi delle sue raccolte oscillano tra la Palermo “barocca e decadente” dove l’aristocratico poeta ha trascorso la fanciullezza e la giovinezza e “l’isolamento” vissuto nella villa ottocentesca adagiata sulle colline di Capo d’Orlando, sulla costa tirrenica della provincia di Messina, dove si è rifugiato con la madre, il fratello Casimiro e la sorella Giovanna, dopo l’abbandono del padre, fuggito nel 1928 con una ballerina a Sanremo. Qui, affascinato dall’azzurro intenso del Mar Tirreno e accarezzato dal lieve vento “di soave memoria” spirante dai monti Nebrodi, il poeta, nutrendosi di autori della migliore letteratura contemporanea europea, ha maturato la formazione stilistica, letteraria e musicale, affinato il proprio universo poetico oscillante sempre tra il reale e l’inconoscibile, tra impalpabili parvenze di luce e memorie, ferme ai giorni di un’infanzia e di una Sicilia di “immobile lontananza”.
Vario poi lo spiegarsi delle situazioni da cui nasce la poesia di Piccolo che, in Candele – esemplare prosa poetica di Gioco a nascondere (Milano, 1960) – ci offre non solo una confessione lirico-descrittiva «… Quando viene la tempesta bruciano le candele nella camera interna; per giungervi quanto passaggio di anditi, di corridoi, tramezzi, gradini e scalette e il pavimento indiscreto che dà nota come piede d’organo, stridente…», ma soprattutto una meditazione sull’isolamento, effimera salvezza: «... Ma finalmente qui è il luogo della sicurezza, scavato nelle fibre delle mura di centro, nel cuore del riposo dove del mondo di fuori non arriva neppure la vibrazione d’una porta… e il vento dei quadrivi e quello che corre intorno alle altissime gallerie sono soltanto lontano fantasma di sibilo…»
Ma il luogo, senza la magia della parola, sarebbe nulla. È la parola, la fisicità della scrittura a conferire alla poesia di Piccolo, vitalità, energia, salvezza e sicurezza proprio attraverso il mischiarsi del “sé” con la natura.
In Canti barocchi e altre liriche (Mondadori, Milano, 1960) è il colore a far vibrare le cose, a modulare le immagini quasi gli stati d’animo del poeta si adeguano ad una metamorfosi cromatica, diventano riflessi di una luce cosmica nell’inarrestabile avventura metafisica: «… verrà nei sogni / oro filato di cieli / nella chiusa stanza, nel calmo splendore / vedrai svanire il mondo / nel volto rotondo d’un fiore…» oppure «… e dove era il raggio feroce, ai muri vicini / che celano i passi e i visi / solleva una voce improvvisi giardini».
La parola si veste della magia del colore e del suono per trascinare verso un moto ascensionale senza far perdere di vista la terra dell’uomo che resta sempre momento di quel divenire fisico che tutto trasforma e armonizza.
Versi come «Folgora l’ora eco di cosmi… vortici del sole… furia di stelle…» disegnano paesaggi cosmici tinteggiati di miti mediterranei con striature d’umana malinconia di fronte allo svanire delle persone e delle cose: «nell’ansiosa flessione / quello che era pietra, massa di bastione, / è gorgo fatuo che passa, trillo d’iride, gorgoglio / e dilegua con la foglia avventurosa» (La meridiana).
Immagini dense ed oniriche, ma radicate nella realtà quotidiana attraverso un oggettivismo surreale e quasi crepuscolare; forme lessicali rare e musicali, enjambement spesso disorientanti anche se giustificate da taluni critici dall’intenzione di costruire «una poesia europea musicale e colorita».
Non sono presenti nella poesia di Piccolo figure umane, ma costante, specie in Canti barocchi, il paesaggio dell’incanto e il continuo fluire delle impressioni di una realtà proiettata metafisicamente verso l’ignoto: «… Ma chi sa i cammini / dell’anima solitaria?…»
La parola poetica di Piccolo esprime principalmente la condizione magica dell’essere che sa resistere alla sofferenza di un’impossibilità del conoscere e la supera con un eloquio fantastico.
L’illusione domina Gioco a nascondere dove il poeta manifesta la consapevolezza della funzione conoscitiva della poesia e della necessità di adottare strategie ludiche e dissimulatorie per sondare il mistero. È l’immersione dell’uomo nell’ambiente incantato: nelle metafore antropomorfiche l’ambiente circostante prende vita: «… il fieno che respira denso… la casa vive d’un respiro diverso (…) oscura mormora, pende, / immenso giroscopio / palpita; (…) Il respiro polveroso dei tappeti …la vallata / adolescente di spighe…»
Immagini intessute di moduli musicali che imprimono alla parola una carica onirica, ma non alleviano la sofferenza del poeta che “vive” l’incubo del buio esistenziale: è la sconfitta gnoseologica che si trasforma nella magica condizione del gioco e nasconde l’indistruttibile prigione della vita.
L’uomo e il letterato si intrecciano e si confondono nell’ineludibile tendenza a trasferire nella sfera dell’arcano il quotidiano: «Scrivo versi come altri passeggia o sta alla finestra», dichiara al giornalista Rai, Vanni Ronsivalle nel 1967, e continua: «quando viene l’oscurità e la casa si interiorizza, diventa ombra, spazio in cui andiamo errando e vi troviamo figure care, persone care che ci sono state vicine».
Nel momento in cui la pagina bianca si riempie di versi, avviene il trasferimento della percezione dal reale al surreale e l’atto creativo del verso, della magia della parola realizza il contatto con una realtà altra. Nella poesia del barone solitario si incontrano cristianità, paganesimo e religioni orientali, in un intreccio di simboli così potenti da innalzare la poesia stessa a religione “unica”.
In Plumelia (la raccolta prende nome dall’arbusto contorto dal perlaceo fiore) risalta, più evidente delle precedenti raccolte, il viaggio solitario del poeta oscillante tra l’attaccamento alla vita e lo smarrimento di fronte l’incubo della morte: «... e /questo nell’ore tarde / al tempo dell’anno che i velieri / delle piogge virano scuri all’orizzonte» (L’andito), oppure «… e in fondo alla strada sul mare / un bastimento che prende il largo / gira i suoi fuochi lontani...» (Notturno) e «… l’onda / lontana e grave distorce / la fiaccola di prua / al peschereccio» (Il messaggio perduto).
In La seta e Il raggio verde (Plumelia, La seta, Il raggio verde e altre poesie, Scheiwiller, Milano, 2001) la preziosità della materia conferisce al paesaggio dell’isola una fantasmagoria di luci e di colori. Nel Raggio, soprattutto, è la “mobile soglia” a dividere e unire due zone: verità e illusione: «… E una mobile soglia che divide, unisce due zone; / non sappiamo dove sorga la memoria / e dove cominci l’invadenza discreta del flusso lunare».
Attimi magici, riflessi onirici, un fluire di spiragli e di misteri. Il “vento è un’ala di colomba” sempre pronto ad accogliere l’anima del poeta alla minima variazione del suo sguardo. Un colloquio perenne con il vento, con il suono della “distesa marina”… con “la grazia delle acque”, con il “cigolio periodico d’un carro che passa”, con le “ombre che persistono nei vani”.
Un universo di “apparenze” e di misteri emerge anche dai versi di Le anime in fiamme dove la realtà è considerata come un riflesso: «… solo quello che ci riflette / è vita e l’anima chiede, / il ritorno di ogni attimo / a specchiarsi infinita…»
Apparenze misteriose che si rincorrono, si fondono, fuggono e poi ritornano, frammenti di ricordi, di volti, di suoni soffocati, di raggi di luna, di mormorii di vento, colti e fermati dalla parola magica della Poesia, unica a scorgere “la divinità che sta dietro al paesaggio”.
Giuseppina Rando
(Luglio 2013)