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Gianfranco Cercone. “Pelo malo” di Mariana Rondón: essere “diversi” a Caracas
23 Novembre 2014
 

I film cosiddetti “di denuncia” tendono spesso a essere didascalici: fatti e personaggi non valgono che come esempi del male, della stortura che si vuole additare. In tali casi, il discorso civile potrà essere alto e condivisibile, ma quei fatti e quei personaggi risultano poveri e schematici; non raggiungono quel grado di concretezza e di “verità” che è proprio di un racconto di valore artistico.

Vedendo il film Pelo malo (e cioè: capelli cattivi) della regista venezuelana Mariana Rondón – uscito in Italia un po’ clandestinamente grazie a una piccola casa di distribuzione, Cineclub Internazionale – può venire a momenti il sospetto di avere a che fare con un’opera di questo genere. Ma ci si ricrede quasi subito.

La storia si svolge alla periferia di Caracas; una di quelle periferie dove si vive in giganteschi palazzi popolari, che fanno pensare a gabbie accatastate per polli di allevamento (le finestre sono perfino munite di sbarre!). Vi allignano i mali della miseria, dell’ignoranza e della violenza; e di un tale maschilismo che l’argomento dello stupro ricorre, un po’ sul serio e un po’ per scherzo, anche nei discorsi tra bambini. Ed è su uno dei prodotti dell’ignoranza – l’avversione per chi è diverso o ritenuto tale – che si appunta la denuncia veicolata dal racconto.

Un ragazzino di nove anni – che cresce, in assenza del padre, con la madre e un fratellino – non ama lo sport e la compagnia dei ragazzi coetanei e tende a isolarsi in un mondo tutto suo, fatto di musica e di danza. Non gli piacciono i suoi capelli ricci e usa delle creme per averli lisci, come quelli di un cantante che ha visto in una foto. Si confida soltanto con una bambina più piccola. E osserva con insistenza un ragazzo più grande che lavora come venditore ambulante.

Tutti indizi, agli occhi della madre, che egli sia omosessuale: cioè, per lei, una specie di indemoniato.

Scrivevo del rischio del didascalismo, nel quale il film incorrerebbe se si limitasse a una illustrazione superficiale di questo caso.

Ma a rendere più complesso il racconto, ecco che, ad esempio, a proposito del ragazzino è introdotta una nota di ambiguità. Si suggerisce che non è per nulla certo che egli crescendo sarà omosessuale. Malgrado l’ostinazione degli adulti di schedarlo già in una categoria, gli è riconosciuto il mistero di un’evoluzione di cui nessuno può prevedere l’esito con certezza, e che nessuno d’altronde può distogliere dal suo corso naturale. E se il torto della madre è evidente allo spettatore, non per questo la donna risulta una “cattiva” da fumetto, come predestinata a essere tale. Provata dalla disoccupazione, disposta a prostituirsi al suo ex-datore di lavoro per riottenere un posto da vigilante, scorge nell’omosessualità del figlio, l’ennesimo colpo di sfortuna di un’esistenza tutta sciagurata. Insomma: la sua rabbia cieca, viscerale – anche se è evidentemente il frutto di una mentalità retriva – è una reazione in cui siamo messi in grado di immedesimarci. Si aggiunga che l’attrice che interpreta la donna – Samantha Castillo (ha vinto per questo film il premio per la migliore interpretazione femminile al Festival di Torino) – dota il personaggio di sfumature e di sottigliezze.

 

Gianfranco Cercone

(da Notizie Radicali, 11 novembre 2014)


 
 
 
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