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Barbarah Guglielmana. AIUTATECI
22 Novembre 2014
 

Dario Stefano Dell’Aquila, Antonio Esposito

Cronache da un manicomio criminale

Edizioni dell’Asino, 2013, pp. 190, € 12,00


«Ciò che è già evidente nel manicomio civile risulta ancora più chiaro nel manicomio giudiziario dove medicina e giustizia si uniscono in un’unica finalità: la punizione di coloro per cui la cura e tutela, medicina e giustizia dovrebbero esistere».
Franco Basaglia

 

È stata dura leggere questo saggio sui manicomi criminali. Dura, piuttosto dura. Questo per il suo contenuto, che non poteva essere che letto con calma e nel silenzio, nell’attenzione sincera verso un argomento difficile e anche sconosciuto, un terribile impegno ma doveroso, fortemente provante; e perché purtroppo certe realtà in parte esistono ancora, e la strada da fare perché diventino solo un triste passato è ancora lunga ed impervia.

Quasi un saggio, un saggio umano, fatto di una parte introduttiva dove viene illustrata l’istituzione del manicomio criminale, con le note storiche. La prefazione è a cura della psichiatra Assunta Signorelli, basagliana, che ora dirige il Dipartimento di salute mentale di Trieste, che ha vissuto quegli anni e quelle realtà e che ha trovato nel libro tutto, quel vissuto storico e quello personale.

Ci sono le storie di vita dei carcerati nel manicomio di Aversa, la denuncia di Aldo Trivini nel 1974, la vita sporca e l’organizzazione rozza dentro quelle mura. C’è la pazzia di chi lo gestiva. C’è il processo a quel manicomio criminale. C’è il presente, fatto di troppo passato. C’è un futuro fatto ancora di troppo presente.

Ho seguito la presentazione di questo libro, questa primavera scorsa, nella libreria Il Delfino di Pavia. Qui gli autori Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito presentavano Cronache da un manicomio criminale, con lo psichiatra dottor Luca Tarantola, che ha seguito la commissione Marino, proprio sul progetto degli OPG, e sulla decisione della loro chiusura, ancora rimandata. È seguito un dibattito, un approfondimento sul tema, sulla necessità di lavorare sia sul sistema penitenziario che su quello sanitario, contemporaneamente, per una visione e una soluzione di ri-costruzione insieme.

Ero entrata con una certa leggerezza, in quella presentazione, ed ero uscita dopo due ore con il libro verde in mano, un verde speranza che nascondeva tanta rabbia, tanta incredulità e quella forma di sorpresa che mi attanaglia ogni volta che scopro una nuova pena del mondo...

La storia dei manicomi criminali ha origine nel 1876, l’amministrazione carceraria aveva inaugurato una ‘sezione per maniaci’ nella Casa penale di Aversa. Nel 1891 si organizzava questa struttura per i condannati con una pena maggiore di un anno, per quelli ‘considerati’ colpiti dall’alienazione mentale. Altri ne nascevano successivamente a: Montelupo Fiorentino (1886), Reggio Emilia (1892), Napoli (1922), Barcellona Pozzo di Gotto (1925), Castiglione delle Stiviere (1939), Pozzuoli (1955). Nel 1930 nel codice penale si erano definiti due modi diversi di scontare una pena: se l’autore che deve scontare una pena era considerato un ‘sano di mente’ la condanna era proporzionale alla gravità del reato commesso, diversamente se definito un ‘folle’ dalla perizia psichiatrica, pertanto ritenuto socialmente pericoloso, scontava in un manicomio criminale una misura di sicurezza detentiva senza un termine preciso, ma questa poteva essere prorogata nel momento in cui il carcerato non si fosse ritenuto sicuro, questo per la rivalutazione del giudice al termine della pena scontata o per le relazioni degli psichiatri durante il suo percorso. Tale meccanismo però è valido ancor oggi! È l’ergastolo bianco: in gergo è la sorte di quegli internati che a fronte di reati non gravi, hanno avuto per decine di anni la proposta della misura di sicurezza, a causa di un parere medico sfavorevole, o semplicemente perché non disponevano di una casa e di un lavoro ad attenderli oltre le mura del manicomio, perché allora non era, e ancora non viene, loro organizzato un programma riabilitativo, che serve a comprendere le loro possibilità, a risolvere le loro tensioni, e che potrebbe aiutarli ad ‘uscire’.

Si leggono righe di vita disumana in questo ‘saggio umano’, che ti cadono addosso come una maglia di ferro spinoso, che non si potrà più togliere, rimanendone un ricordo pesante per sempre: ...Tre internati sono legati con “fascette in tela che avvolgono i polsi e le spalle e che sono assicurate alle sbarre del letto”. Non sono in grado di rispondere alle domande del magistrato che chiede loro per quale motivo siano legati. (...) ai piani superiori vi sono fino a sei letti per cella. In nessuna vi sono i servizi igienici, che sono posti all’esterno (...) E sulle celle singole, privilegio di pochi internati, il direttore spiega che tali concessioni sono dettate da “ragioni cliniche, ragioni di sicurezza, ragioni giuridiche, ragioni culturali ed anche ragioni di opportunità” (...) Risultano presenti nel 1974, seicentosettantaquattro internati, sono in servizio ad Aversa, quattro medici di ruolo, quattro a contratto, tredici impiegati amministrativi, duecentoventinove agenti di custodia e una sola assistente sociale (...) Un gabinetto ogni dodici detenuti e una doccia ogni cinquanta - settanta. (...) era solito praticare punture senza ordine medico e con vero sadismo ai detenuti (...) Mentre ero legato potei constatare che gli ammalati legati di frequente venivano maltrattati moralmente e fisicamente con getti d’acqua fredda sul corpo nudo, e percosse, lo stesso e di peggio avveniva per i minori di 18 anni. (...) Ogni volta che era di servizio nel reparto letti di contenzione, praticava a tutti i legati delle punture soporifere – come poteva farlo su di me, se il medico neppure mi aveva visto? (...) latte annacquato, pasta cotta senza condimento, cavoli bolliti, carne (poca) scadente (...) per i bisogni corporali avevamo due buglioli nell’angolo della stanza e a contatto con dei letti; i bugioli venivano vuotati soltanto una volta al giorno, mai lavati e mai disinfettati. La doccia si faceva una volta al mese, quando andava ben, cioè se si aveva un pacchetto di sigarette alla guardia addetta. Agli internati non è permesso usare i propri abiti, vestono quindi sempre di quei pochi abiti forniti al momento all’ingresso, spesso ridotti a brandelli (...) I periti rilevano la ‘pressoché totale inesistenza di attrezzature ricreative e socio - terapiche’ (...) Gli ambienti sono risultati freddi e il numero delle stufe insufficiente rispetto alle stanze (...) L’assenza di lenzuola in quasi tutti i letti. L’erogazione dell’acqua calda non è sempre garantita. (...) Gli internati legati al letto di contenzione non mancano. (...) Nessuno degli internati posti al letto di contenzione è in stato di agitazione o eccitamento psichico, per cui i periti si chiedono se la misura contenitiva sia stata adoperata: 1) a scopo preventivo di ulteriori manifestazioni di pericolosità; 2) con indebito prolungamento oltre il tempo necessario; 3) a scopo ‘punitivo’ delle manifestazioni abnormi precedenti. Il dubbio non è certo chiarito dalle cartelle cliniche, nelle quali non si rintracciano indicazioni utili alle terapie somministrate (...) L’inesistenza di iniziative socio terapeutiche. (...) Il massimo che viene offerto sono alcune televisioni sistemate nei corridoi o in qualche sala comune. Per la psicoterapia sono presenti solo due psicologi, per di più convenzionati e non obbligati a nessuna presenza prolungata, per ottocento degenti (...) Le terapie praticate mirano soltanto al superamento di eventuali malattie intercorrenti di tipo internistico, ed alla sporadica sedazione di eventuali fasi di eccitamento psichico (...) I periti analizzano un gruppo di cartelle cliniche prese a campione. Ecco cosa emerge puntualmente da questa verifica: a) i diari clinici si susseguono con periodicità varia, ma per lo più a distanza di mesi (non più di due - tre diari l’anno); b) in alcuni casi vi sono solo annotazioni sulla contenzione; c) diverse cartelle cliniche non portano annotazioni della diagnosi psichiatrica; d) i cicli di terapia (per lo più trenta e raramente sessanta giorni) hanno una frequenza molto diluita (uno-due per anno); e) non vi è un diario clinici odi valutazione alla fine del ciclo di terapia; f) vi sono numerose cartelle cliniche con annotazioni di situazione psicopatologiche di rilievo non seguire però dalla somministrazione di terapie, Per i periti è inconfutabile che la “custodia” sia preponderante sulla cura (...) Nella ‘Staccata’ scovano un locale (non segnalato nelle precedenti ispezioni giudiziarie) contenente numerosi letti di coercizione. L’inchiesta in corso non ha modificato le ‘abitudini’ del manicomio di Aversa confermano il quadro di incuria e sporcizia (...) Si trovano anche medicinali e insulina scaduti. (...) I periti bocciano le tesi difensive come ‘tecnicamente inaccettabili’ per la contenzione. L’avvento degli psicofarmaci e della psicoterapia consente di poter controllare diversamente un paziente depresso. (...)

Nel processo al manicomio di Aversa verranno ritenute attendibili le testimonianze degli internati, insieme alle perizie dei periti, con la condanna in primo grado del direttore Domenico Ragozzino (questo non attenderà però la sentenza di secondo grado, e si toglierà prima la vita) e con i processi a tutti gli operatori operanti nel manicomio.

Nel 2010 la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del sistema sanitario nazionale ha effettuato le sue prime visite negli ospedali psichiatrici giudiziari, confermando la gravi condizioni. Il presidente Ignazio Marino dichiarava che gli OPG sono: «Una sorte di inferno organizzato dove, senza problemi, viene affermato anche dagli operatori che vi lavorano che i malati stanno vivendo duna sorta di ergastolo bianco». Per il 2013 i manicomi criminali dovevano essere chiusi, con il progetto che le persone socialmente pericolose dovessero essere prese in carico sul territorio, dai Dipartimenti di salute mentale. Il Ministero della Salute aveva definito i «requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi, anche con riguardo ai profili di sicurezza, relativi alle strutture destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico e giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia». Il termine è stato prorogato al 31/03/2014, per i ritardi riguardo al trasferimento delle risorse e nella ricostruzione delle nuove strutture. E ancora un’altra proroga fino al 2017, senza migliorare nel frattempo le cure e le strutture dove queste persone ancora vivono...

A conclusione gli autori di questo Cronache da un manicomio criminale dichiarano: «LA CHIUSURA DEGLI OSPEDALI PSICHIATRICI GIUDIZIARI È CONDIZIONE NECESSARIA, MA NON SUFFICIENTE. La norma che dispone la loro chiusura non può che essere accolta con favore nella misura in cui rappresenti un passaggio per il superamento di logiche di sopraffazione e violenza su persone sofferenti... SE LA CHIUSURA DEGLI OSPEDALI PSICHIATRICI NON SEGNERÀ UN MUTAMENTO DEL DISCORSO PSICHIATRICO ODIERNO, COSÌ IMPEGNATO NELL’INDIVIDUAZIONE DEI SINTOMI E ALLA RICERCA DI UNA DIAGNOSI DA VEDER L’UOMO SOLO ATTRAVERSO LA SUA MALATTIA, E DELLE SUE PRATICHE DI CONTENIMENTO, INTERNAMENTO ED ESCLUSIONE, NON CI SONO FONDATE RAGIONI PER DIRE CHE IL FUTURO SARÀ DIVERSO».

 

Barbarah Guglielmana


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