Sono i giorni della fiera, la banda è arrivata in paese, i bambini corrono felici per le strade e i grandi guardano il passaggio dondolando sulla veranda. Di film western ne ho visti tanti, ma di ritrovarmi un giorno in uno di quei paesi nel nulla, dove l’afa ti si attacca alla schiena, uno mastica e l’altro sputa, uno tiene la mano sulla pistola e l’altro beve, ad osservare l’orchestra di turno che suona sulla piazza per allietare gli avventori, mai l’avrei potuto pensare. Di vedere diciassette musicisti in gilet, cravattine, mocassini di cuoio, cappelli e bretelloni, sotto teli rossi e antichi lampadari, sotto un’insegna gialla che richiama una festa da vestito buono e bevute smodate, lì davanti, a raccontarmi l’America che non c’è più, guidati da un direttore elegante, serio e folle, drammatico e felice, non l’avrei mai detto. Nell’epoca della musica su Internet, dei videofonini, delle signorine gentili sulle scrivanie dei dirigenti, il restare incantato davanti al washboard (“strumento” usato anche per lavare i panni), io credo che solo Mister Bruce Springsteen al mondo avrebbe potuto regalarmelo. O almeno, solo lui in questo modo. Con l’album del tributo alle radici, a Pete Seeger ma anche ai contadini, ai lavoratori, ai pionieri, ai cercatori d’oro, il Boss è passato dall’essere l’incarnazione vivente del rock’n’roll, all’essere il reinventore del folk, del country, del blues, dello swing, di quel fottuto sporco sound alcolico che tanto ci ha fatto amare i Pogues negli anni ‘90. Il padrone del rock, il cantautore solista degli episodi acustici, oggi ha sentito il bisogno di raccontare il passato, sputando di nuovo in faccia alle strade che per lui sarebbero più semplici e remunerative (un nuovo ritorno con la leggendaria E Street Band, per esempio).
Non era mai accaduto che si esibisse in Italia sette volte in un tour, figuriamoci nell’arco di così poco tempo. Ed invece il Wild Billy Circus o Bronco Billy Wild West Show, è arrivato al Belpaese nei primi dieci giorni di ottobre, riuscendo nell’intento di far tornare l’estate. La seconda parte del giro delle Seeger Sessions ha offerto al popolo del Boss anche questo, dopo l’assaggio primaverile di Assago. Le date mi sono sembrate fin da subito troppe per un tour senza la E Street e il pensiero che una via di mezzo fra una e sette sarebbe stata la miglior soluzione non mi abbandona nemmeno oggi, a pochi giorni di distanza da quelle emozioni. Ciò nonostante alla fine tutti i posti si sono riempiti, una serata ha tirato l’altra, i fans hanno macinato chilometri su e giù per la penisola, con buona pace della Barley Arts (che anche stavolta non ha scherzato con i prezzi) e dello zoccolo duro degli springsteeniani, che erano, (eravamo), preoccupati che il Capo avrebbe potuto dispiacersi davanti a qualche spazio vuoto. Niente di tutto questo. È stato l’ennesimo trionfo. L’ennesima conferma di un artista che come nessun altro è riuscito a crescere, a mantenersi fedele alle sue radici pur sperimentando stili diversi, anche se provenienti dalla medesima matrice.
Su questo progetto, sul ritorno alla tradizione americana, molto si è scritto dall’aprile scorso, e non vale la pena di insistere. Ne sappiamo già abbastanza. Qualche considerazione però è obbligatoria. Le sette tappe italiane, Bologna, Torino, Udine, Verona, Perugia, Caserta e Roma, sono state un vero e proprio atto d’amore da parte del Boss, un crescendo di performance, scalette, improvvisazioni, sudore e brividi. Se all’esordio la banda è sembrata grande ma in fase di rodaggio, nelle date successive il gruppo è parso più compatto, conscio della sua grandezza e affiatato. Il Capo, nella solita forma smagliante e con la variante delle bretelle sotto il gilet (perfetto stile da contadino che la domenica si mette in ghingheri per andare in città a trovare moglie… la classe non è acqua…) ha cambiato la media di cinque canzoni a sera, proponendo oltre ai brani del nuovo disco anche canzoni sue riarrangiate. La nuova The River mette i brividi, come Growin’ Up (a Udine dedicata agli anziani…), Factory, Devils & Dust, Bobby Jean, Long Time Comin’. Interessante la proposta delle trascinanti This Little Light Of Mine e Rag Mama Rag, le cui esecuzioni hanno ricordato a tutti i finali di show targati E Street. Due parole le merita l’ultima canzone scritta da Bruce, quella American Land che è diventata il simbolo del tour. Il Boss l’ha usata per chiudere tutte le date. Ed è una vera e propria bomba sotto il culo. Sarà la smania di sentirlo cantare un pezzo nuovo che sia suo - sia pure ispirato da… - ma l’impressione è che se la avesse usata per un altro disco suonato con questo gruppo, forse il brano avrebbe trovato collocazione migliore che sulla nuova edizione delle Sessions. Una canzone emigrante, irlandese, gioiosa e festante, un delirio di fiati, violini e chitarre, da farti alzare il mattino e avere voglia di prendere a schiaffi il primo che rompe le palle. Un pezzo da Boss, che avrà ampio spazio anche negli spettacoli del futuro.
Gli show sono durati circa due ore e trenta, e in ognuno Bruce ci ha messo qualcosa di particolare. A Udine (organizzazione perfetta, complimenti) si è fatto portare una bottiglia di grappa e ha brindato con tutta la banda, a Verona ha ripescato Fire (rarissima, vera perla) partendo da Romeo e Giulietta e ha fatto cantare Valerie a Patti, a Roma (dove fra il pubblico ho visto con piacere anche Vinicio Capossela) è sembrato completamente rapito dalla bellezza della città e ha guidato personalmente, seduto a bordo palco, il coro del pubblico su Pay Me My Money Down. Nelle date in cui lei era presente non ha mai mancato di rimarcare il suo amore per la sempre dolcissima e rossa mogliettina, quasi a voler smentire le voci di crisi circolate la scorsa estate.
Ma che dire della banda? La personalità del chitarrista Marc Anthony Thompson è qualcosa di superbo. La coppia Charlie Giordano (piano e fisarmonica) e Marty Rifkin (pedal steel), lì a destra, ti manda in orbita, come quei quattro pazzi scatenati della sezione fiati. Art Baron, Ed Manion, Curt Ramm e Clark Gayton in certi momenti dello show, come sul finale della selvaggia Jesse James, diventano i veri protagonisti della scena. Larry Eagle alla batteria è un metronomo, Sam Bardfeld al violino ti lascia secco, Greg Liszt al banjo ti carica la Colt. E tutti insieme hanno un’aria di simpatica inconsapevolezza, di banda ottocentesca da saloon, che li rende ancora più unici. Come quando li incontri per strada e paiono stupiti che tu conceda loro una stretta di mano. Questi qui non fanno rimpiangere la E Street Band. Sono un’altra cosa, ma non la fanno rimpiangere. Sono un gruppo di professionisti che ha trovato una giusta consacrazione e che per Bruce sarà dura lasciare a casa dopo questa avventura. Un nuovo album con loro ci sta tutto, pur nel rispetto del diritto di precedenza di Clarence e soci, con i Santi non si scherza.
Alla magia generale della fiera ha contribuito fortemente la gente. Anche se nessuna delle sette date ha vissuto il delirio euforico di maggio ad Assago, (i fan stoici hanno potuto scegliere, portarsi la zia o la nonna, e la carica emozionale ha un tantino risentito di ciò agli spettacoli), Bruce vive con loro (noi) da più di trent’anni una sorta di rapporto privilegiato e unico, senza menzogne e basato sulla reciproca fiducia. E questi Travellin Fans sulle strade d’Europa e del mondo, li ha solo lui. Forse perché nessuno come lui ha saputo meritarseli. Un amore così netto, sincero da toccare la fede è rarissimo. In quei sette giorni di fiera c’erano seguaci che ormai hanno tutte le età, dai 12 ai 70. Devo dire il vero, mi sembra che i “vecchi” abbiano imparato meglio la lezione, abbiano respirato meglio l’aria della festa, abbiano saputo un’altra volta indossare gli stivali ed entrare nel mondo rurale cantato da anni, non solo oggi, da Bruce. Altri, a mio avviso perdendo un po’ di quella anarchia rock di cui il Boss è sempre stato portavoce, sono bravissimi nell’organizzarsi in file e numeretti dal giorno prima del concerto fuori dai cancelli, per accedere all’area delimitata sotto il palco (Pit). Il tutto con ordine e precisione, con appelli rigorosi e depennamenti severissimi, nel nome dei valori sacri del rispetto, della tolleranza, della serietà e via così. Beh, forse ciò che manca in quel bellissimo fiume umano di portatori sani di valori springsteeniani, quello che si è un po’ perso rispetto agli anni delle corse selvagge verso la transenna (che nonostante le civilissime liste si fanno ancora), è un briciolo di ironia. Quella che né Bruce né Miami Steve, ma credo nemmeno il buon Dan Tucker, hanno mai disdegnato. Un umile suggerimento: forse una birra in più e un appello in meno, la prossima volta, renderanno la fiera ancora più incredibile.
Che altro? Il resto è storia. Bruce è così, ma bisogna esserci per capire, sentire, respirare, vivere gli sforzi, i viaggi, le code, le ansie, i soldi spesi, i lavori mandati a puttane, le storie d’amore abbandonate e le amicizie divenute. Bisogna esserci per capire il perché di questa fede. E adesso che la fiera è passata, che gli stivali sono tornati nell’armadio di casa a prendere polvere e che le luci della festa si sono spente, in attesa del nuovo giro, mi resta in mente solo la frase dell’amico Lupo, vero John Henry dei giorni nostri; “chi l’ha visto l’ha visto, chi l’ha visto lo sa, basta. Non ho più niente da dire”.
Marco Quaroni
(per 'l Gazetin, novembre 2006)
mquaroni@hotmail.com