Incede da ferma. Senza testa. Allampanata e ieratica. Bloccata in un bronzeo ed eterno movimento. Verso dove? È la Donna che cammina di Alberto Giacometti: 150,3 x 27,7 x 38,4 cm di meraviglia. Uno scultore geniale Alberto Giacometti fu Giovanni: da Borgonovo e Stampa, Val Bregaglia, a Parigi, a rinnovare la realtà, a interpretare il soggetto del mondo, a sviscerare il tormento interiore delle cose. E poi l'angoscia e la felicità della ricerca – necessario ossimoro – e la sintesi dopo l'antitesi, allungando o assottigliando o ingigantendo figure che paiono sbucare dal buio caos circostante, che tagliano e fendono lo spazio. Sempre ricettivo alle avanguardie fu Alberto Giacometti – cubismo e surrealismo – e, nel contempo, sempre originale e indipendente nel suo fare. Mai imitatore, semmai modello per i contemporanei e gli altri a venire. Imitato forse e inimitabile di certo.
La mostra milanese, allestita alla GAM di via Palestro, sino al 2 febbraio è, oltre che preziosa, quanto mai completa nel descrivere l'itinerario del Giacometti. Dalle prime teste in bronzo e gesso a La Coppia (1927, gesso e tracce di matita, 60,4 x 37,7 x 18 cm), in cui è evidente anche l'influsso sul giovane artista dell'arte africana, così essenziale, archetipica, che ben si sposava ai moduli dell'astrattismo; dalla Sfera sospesa (1931-versione del 1965, gesso e metallo, 60,6 x 35,6 x 36,1 cm), definita da Dalí come il prototipo degli “oggetti a funzionamento simbolico”, alle figurine disperse ne La Radura (1950, bronzo, 58,7 x 65,3 x 34 cm), nudo e puro spaesamento esistenziale; dal muto grido de La Gabbia (1949-50, bronzo, 90,5 x 36,5 x 34 cm) alle Quattro donne su piedistallo (1950, bronzo, 73,8 x 41,2 x 18,8 cm)... Un lungo viaggio in cerca di sé fra tanti se. Assimilabile in qualche misura, pur nelle proprie forme plastiche, alla filosofia munchiana – il disorientamento che ci coglie nei giorni spasmodici del mondo, sovente incomprensibile e tragico, ma con formidabili dosi di eroismo – Giacometti con le proprie figure, i busti e le teste, ricompone la fatica dell'esistere nel bello, in un senso ultimo, quasi profetico, com'è il caso della Grande Testa (1960, gesso dipinto, 100,5 x 31,7 x 43,1 cm), sofferente e visionaria, dolente imago che scruta nel profondo e oltre. Magnifica, infine, la Grande donna IV (1960-61, bronzo, 270 x 31,5 x 56,5 cm), paradigmatica dell'evoluzione del cosmopolita artista dei Grigioni, sempre più teso, pur nella “monumentalità”, all'assoluto (eppure è un demiurgo che si sporca le mani...). Impressioni fisiche e metafisiche... «Testa soprattutto, testa [innanzitutto], figure poi. Diego, Annette, Caroline, altre sculture, pitture, disegni. Tutto ricominciare dall'inizio, così come vedo gli esseri e le cose, soprattutto gli esseri e le loro teste, lo sguardo all'orizzonte, la curva dei loro occhi, la separazione delle acque» (Ipse dixit).
Peraltro nelle sale dell'esposizione son presenti anche disegni, dipinti e fotografie. Molto interessante la sequenza di copie dei capolavori dai grandi maestri italiani (Giotto, Tiziano, Raffaello, Masaccio, Tintoretto) che Giacometti aveva riprodotto in un suo tour nel Bel Paese (Venezia, Padova, Firenze, Roma) con l'amato padre Giovanni. Lavori emblematici dell'onnivora curiosità intellettuale e del variegato spettro della sua ispirazione.
«Da più di trent'anni il problema che assilla Alberto Giacometti è quello di fissare l'immagine fuggitiva dell'uomo, di catturarla plasticamente nel suo difficile rapporto con il moto, con lo spazio. Da più di trent'anni, perciò egli lavora nottetempo ai medesimi modelli, li plasma, li allunga, li deforma, li distrugge, li rifà ancora, sempre incalzato dalla speranza di cogliere quell'immagine fuggente, e di restituire, con la terra, l'essenza palpitante d'un uomo. Metà della sua vita, ormai, è stata spesa in quest'assillo, senza mai trovare il modo di placarlo, e oggi, a sessant'anni, nonostante i successi mondiali e gli onori, egli si aggira nel suo studio tetro, a Montparnasse, esibendo con violenza la sua natura tormentata di scultore, misurando le stanze con lunghi passi da lupo, soffiando intorno parole grevi, catarrose.
Ha guance che sono diventate quasi verdi a furia di lavorare nottetempo, una gran testa leonina di capellacci grigi, riccioluti, mani grandi con unghie che si sono fatte nere, ritorte e adunche a contatto con la terra, col gesso, e quando scrive di sé dice che “scolpisce per mordere nella realtà, per meglio attaccare, afferrare, avanzare su tutti i piani, per difendersi dalla fame, dal freddo, dalla morte, per essere il più libero possibile”. Questo, infatti, è Alberto Giacometti: un artista così libero e violento, così ignaro di regole sociali, così lontano da tutto ciò che non riguarda la sua personale ossessione di scultore, da poter rispondere alle nostre domande – seduto su una branda, in mezzo alle cartacce, ai piccoli gessi filiformi, ai mucchi di carbone – in una maniera che colpisce per il suo impeto nudo, per la sua verità brusca, quasi primitiva» (preludio a un'intervista di Grazia Livi ad Alberto Giacometti, Epoca, gennaio 1963).
«Quelle dei suoi pollici, soprattutto, che entravano nella creta bagnata aprendo una delle tante strade che lo avrebbero fatto avanzare di pochi centimetri, prima della scontentezza, dei rifacimenti e con tutt'altro percorso. Guardavo la camicia e la cintura dei suoi pantaloni. Si doveva essere vestito con la rapidità di un fulmine perché la camicia gli stava uscendo dai pantaloni e la cintura, scivolata sulla schiena a un'altezza ben strana, stava così perché i suoi pantaloni erano privi di passanti. Vedevo un uomo anziano e inerme, un attore comico che lavorava con grande concentrazione a una cosa con la quale lottava strenuamente. Infatti era in estasi.
Mi concentravano sui due che lavoravano e capii come faceva Lotar a non respirare. Eli Lotar doveva essere il modello ideale per quella scultura, perché Lotar era morto. Non respirava, non pensava, non abbandonava mai la concentrazione. Una sola elettricità, una identica complicità andava e veniva dall'uno all'altro. Giocavano senza palla né racchetta né rete, ma si rimandavano puntualmente l'unico soffio d'aria presente in quella stanzetta, l'unico rimasuglio di vita: erano diventati le vittime alle quali ogni tanto sfugge quel filo d'aria che si è nascosto nei polmoni di un cadavere e adesso, imprevedibilmente, si affacciava tra le loro labbra per incontrare l'altro filo d'aria dell'amico che stava di fronte» (Giorgio Soavi, In posa da Giacometti).
Alberto Figliolia
Alberto Giacometti, a cura di Catherine Grenier, promossa dal Comune di Milano e organizzata e prodotta dalla Galleria d'Arte Moderna e da 24 ORE Cultura-Gruppo 24 ORE, in collaborazione con Fondazione Alberto et Annette Giacometti.
Sede: GAM-Galleria d'Arte Moderna di Milano, via Palestro 16, Milano. Periodo: sino all'1 febbraio 2015. Orari: lun 14:30-19:30; gio 9:30-22:30; gli altri giorni 9:30-19:30.
Info e prenotazioni: www.mostragiacometti.it, www.comune.milano.it/gam, www.ticket.it/giacometti. Tel. 02 549169. Catalogo: 24 ORE Cultura-Gruppo 24 ORE.