“I bassifondi del Barocco. La Roma del vizio e della miseria” s’intitola l’originale mostra aperta a Villa Medici, visitabile fino al 18 gennaio 2015. Da febbraio a marzo sarà al Musée des Beauux-Arts di Parigi che insieme all’Accademia di Francia di Roma ha ideato e organizzato la rassegna curata da Francesca Cappelletti, professore di storia dell’arte moderna dell’Università di Ferrara, e Annick Lemoine, responsabile del dipartimento di Storia dell’arte dell’Accademia di Francia a Roma e professore all’Università di Rennes 2.
I bassifondi del barocco svela il lato oscuro e indecoroso della Roma Barocca, quello dei bassifondi, delle taverne, dei luoghi di perdizione. Una Roma “alla rovescia”, abitata dai vizi, dalla miseria e da eccessi di ogni tipo, che è all’origine di una stupefacente produzione di opere, ricca di paradossi e invenzioni destinati a sovvertire l’ordine stabilito. La mostra è scandita in nove sezioni tematiche e la prima annoda il filo con la tradizione classica, ed ha la sua icona nel Bacchino malato (1593) di Caravaggio, a cui fanno corona il Bacco bevitore (1621-22) di Manfredo Manfredi e l’elegante Bacco giovane (1542) di Pseudo Salini. La vita della suburra, vicoli e taverne poco hanno a che fare con le memorie classiciste. Giovanni Baglione fu testimone e fustigatore di dissoluti costumi e in questo clima violento brucia il rogo di Giordano Bruno e va a morte Beatrice Cenci.
Bacco, tabacco e Venere la fanno da padroni nella società cosmopolita di Roma, il centro culturale più vivo e dell’avanguardia in Europa che attira artisti da ogni paese, francesi, olandesi, fiamminghi, spagnoli, dal Nord Europa e naturalmente dall’Italia. Una città splendida e misera in cui bellezza, lusso, eleganza si confrontano con l’universo degli emarginati, con i bassifondi, la violenza, la vita notturna e i suoi pericoli, con il Carnevale e le sue licenze.
I pittori della Bent, in prevalenza pittori olandesi e fiamminghi, avevano eletto Bacco a loro nume tutelare, perché l’ebbrezza è la prima soglia del vizio: i Betvueghels (uccelli dello stormo) formano una brigata con riti iniziatici volti a celebrare Bacco, tabacco e Venere: uno dei leader di spicco è Pietre van Laer detto il Bamboccio da cui nascerà una corrente d’artisti cosmopoliti che viveva ai piedi di Villa Medici, come egli rappresenta nella tela L’osteria romana (1626-28). La rarità della costruzione del dipinto fa intuire l’eccezionalità dell’evento rappresentato, che risponde alla volontà di autocelebrazione della Schldersbent, la lega dei pittori nordici che van Laer ritrae, non senza divertimento, con personaggi in veste di antagonisti della cultura ufficiale e provocatoria. L’opera rappresentata come un tableau vivant, diviene recita, nelle forme espressive del teatro comico popolare, di una vera e propria cerimonia con i suoi rituali.
La confraternita è ironica e autoironica quando si raffigura come nell’Autoritratto di Pietre Boddingh van Laer e rimanda al grottesco Autoritratto con scena magica (1638-39) dello stesso, e alla Scena di stregoneria (1646) di Salvator Rosa che nei suoi versi sbeffeggiò i bamboccianti. Rosa s’inserisce in una tradizione che lega la pittura alla magia. Se il pittore, come la strega, osserva la natura e l’utilizza per modificarla, l’ignoranza e la superbia possono condurre alla devianza dell’arte. Si può, così, formulare l’ipotesi che gli elementi d’insegnamento della pittura, nel quadro, siano ironicamente ridotti a stregonerie: la giustapposizione di scenette, lo scheletro, il cadavere, la statuetta di cera, il foglio con motivi geometrici al suolo, sono sfruttati da Rosa attraverso un dispositivo di esagerazione carnevalesca, dove il nobile diventa volgare e mostruoso.
Tra XVII secolo si assiste a uno sviluppo di testi prescrittivi e descrittivi, dal legislativo al letterario – è l’epoca dei racconti di avventure di poveracci e mascalzoni e poi del romanzo picaresco – che offrono tassonomie precise degli abitanti ai margini dell’Europa: zingari, ladri, prostitute, bricconi, mendicanti e furfanti. Anche i pittori del Seicento manifestano un interesse del tutto nuovo per l’altro, colui che vive agli antipodi della società aristocratica e colta. Mendicanti, bevitori, prostitute e musici condividono un tratto comune: sono anonimi, dei figuranti, ciò nonostante hanno diritto ad essere effigiati. Il ritratto dell’uomo illustre risponde a un’esigenza di memoria, di prestigio e di verosimiglianza; si tratta di esprimere una personalità, la dignità di una condizione sociale, o quella di nascita. I ritratti dell’emarginazione si inscrivono in una logica totalmente diversa; essi testimoniano di una ricerca naturalistica e di un interesse quasi “etnografico” per la rappresentazione dell’individuo. I volti dai tratti marcati, gli oggetti, ma anche le vesti preziose o i cenci, forniscono il pretesto per esibire virtuosismo nella resa della luce, delle fisionomie, degli incarnati, o dei materiali.
L’incantatrice o la maga, così come l’indovina, rappresentano, agli inizi del XVII secolo, l’opposto di donna onesta: detentrici di saperi occulti e di poteri irrazionali e seduttrici, fanno vacillare – simbolicamente – la gerarchia dei sessi e la dominazione maschile. L’artista si misura con la strega o con l’incantatrice per ingannare lo spettatore. Pietre van Laer arriva fino a rappresentarsi nei panni del mago-alchimista, figura al contempo della melanconia e dell’erudizione, allude così agli effetti, tanto pericolosi quanto affascinanti, della sua arte.
Non so qual sia più maga
O la donna che fingi,
o tu che dipingi.
(Gaspare Murtula, Per una zingara del Caravaggio, 1604)
Maria Paola Forlani