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Alberto Mingardi. Cari amici radicali, siete stranieri in terra straniera. E forse è giunto il tempo…
25 Ottobre 2006
 

Considerando questo inizio di legislatura, è difficile negare che esista un “patrimonio radicale”, che in Italia si va rapidamente rivalutando. Esclusi per anni dal vorticoso stagno della politica parlamentare, i radicali non hanno certo disimparato a nuotare – e, messi a confronto con una classe politica in larga misura incapace, a destra come a sinistra, di avere una progettualità e di concretizzarla, si segnalano ora come gli unici in grado, forse, di estrarre opportunità dalla fragilità della maggioranza e dal silenzio dell’opposizione.

È d’obbligo parlare di radicali anziché di Rosa nel pugno, perché il nuovo soggetto politico battezzato con le ultime elezioni dà pochi segni di vita. Annaspa. È anche un problema di comunicazione, di caratterizzazione delle nuove battaglie radicali. La Rosa è sorta su una convergenza su temi etici (talora, con sfumature surreali: si pensi alla battaglia dei socialisti contro la libertà educativa, che non aveva altro scopo che bruciare allori sull’altare di un laicismo a dir poco usurato), li ha imposti nel dibattito pre-elettorale, non può gestirli come vorrebbe stando in una maggioranza come quella attuale. E, diciamolo, sul punto ha perso: conquistandosi una percentuale da partitino d’azione, coerente del resto con lo snobismo intellettuale dei suoi ammiratori.

Sia Emma Bonino che Daniele Capezzone hanno invece saputo fare da lievito nella discussione pubblica, negli ultimi messi, ricaricando una per una le cartucce delle “battaglie radicali” sul fronte dell’economia. Si sono messi di traverso alle più demagogiche pulsioni della maggioranza di cui pure, lealmente, fanno parte, si sono attivati come interlocutori ragionevoli del mondo del business, hanno cominciato a coagularsi attorno una ristretta ma significativa cintura di forze intellettuali affini al progetto di una società con meno Stato e più mercato, meno regole e più libertà, meno burocrazia e più impresa. E lo hanno saputo fare essendo l’esatto contrario dell’impoliticismo da cui è stato affetto chi quelle idee le ha brandite da destra, anzi muovendosi come anguille, serpentoni da transatlantico.

E ora? Bella domanda. Capezzone – che dirlo fa ridere, per questioni d’età, ma è il più saggio dei politici italiani – si è disamorato dell’eterno tiramolla italico sui “contenitori” politici, per dedicarsi anima e corpo ai contenuti. Bravissimo, ma prima o poi anche il problema del contenitore s’impone.

Se i radicali sono stranieri in terra straniera sia a destra che a sinistra, la loro attuale e casuale collocazione è destinata a durare oppure no? E se il condominio è il centro sinistra, ha proprio senso starci in un duplex con Boselli? Ancora: l’esperimento del gruppo dei volenterosi che cos’è stato? Un embrione di “piccola coalizione” dei riformisti? La prova provata che ormai i partiti servono solo per arrivarci, in Parlamento, ma una volta che vi si è entrati sono altre realtà i più opportuni “aggregatori” di idee? Un semino gettato per terra da cui potrebbe germogliare una nuova forza politica, che rastrelli persone ragionevoli in ambo gli schieramenti?

Lo scopriremo solo vivendo. Vedremo cosa uscirà dal congresso di Radicali italiani. E vedremo soprattutto quanto durerà l’attuale fase “giavazzista” dei radicali, che ha dato riscontri importanti in termini di visibilità e, persino, qualche successo politico, ma è anche coincisa con un “congelamento” di prese di posizioni che sono passate in secondo piano rispetto all’agenda del momento. La storia dei radicali – a un non-radicale curioso, per certi versi ammirato, per altri dissonante – sembra quella di un movimento d’opinione più che di un partito, un movimento che ha sempre tenuto fermi alcuni obiettivi ma che ha sommato in maniera disordinata munizioni e strumenti. Vivendo anche i radicali giornate di ventiquattro ore, a un certo punto bisogna scegliere: con quale bandiera ci si presenta agli elettori, come ci si vuole fare riconoscere, su quali temi se andrà avanti fino alla morte a picchiare. Sapendo benissimo che la soglia d’attenzione anche degli osservatori più appassionati è bassissima, per cui o si è quelli “degli embrioni” o si è quelli “dell’impresa in sette giorni”, non è un aut aut, non è che sia necessario abiurare a metà di se stessi per conservare l’altra metà, ma una semplice ed onesta esigenza di comunicazione.

Forse l’arcipelago radicale, che da sempre è fatto da tante isole, è maturo per una strutturazione ancora più articolata dell’attuale. Forse c’è bisogno di una diaspora, com’è nel destino (e in parte già nella storia) di un piccolo popolo combattivo. Forse la stessa cultura politica radicale è destinata a diluirsi un poco, andando invece a contaminarsi sempre di più con le suggestioni che offre l’universo del liberalismo classico di stampo anglosassone. Oppure forse, dopo qualche mese di eclissi, torneranno i temi della libertà del corpo, cui i radicali sacrificheranno sentieri che a chi scrive sembrerebbero più promettenti e più utili al Paese, ma per carità, onore comunque a una scommessa politica coraggiosa.

Fatto sta che oggi un liberista in Italia non può che essere contento della presenza radicale in Parlamento. Che essa sia all’interno del centro-sinistra e non del centro-destra, significa poco per chi ha più a cuore i “contenuti” dei “contenitori”, e comunque garantisce margini di libertà che a parti invertite sarebbero stati impensabili. È più facile puntellare le disordinate pulsioni antistataliste del centro-destra, o “dare un’anima liberista” al centro-sinistra? Sono battaglie da disperati l’una e l’altra, ma per fortuna c’è chi le combatte.

 

Alberto Mingardi

(da Notizie radicali, 24 ottobre 2006)

 


 

NOTE

Alberto Mingardi è direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni (www.brunoleoni.it)


 
 
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