Nell’aria là non si giace stretti.
(Paul Celan)
Vengono gli angeli
e alla tua porta bussano.
(Angelo Andreotti)
Da che l’Angelo mio più non mi veglia,
da che lo espulse, dopo l’alba, il giorno,
il nostalgico volto ei spesso inclina
verso la terra: e più non ama il cielo.
(Rainer M. Rilke)
Il senso del volo non è dove andare, ma è come farlo.
Farlo senza più saperlo.
(Angelo Andreotti)
Nella poesia di Angelo Andreotti, l’esilio del vivere si apre alla ricerca continua di una parola rinnovante una meravigliata scoperta della luce che dall’ombra si delinea, prende forma, diventa aurora e rinascita, poiché già nel primo incontro con l’ombra «sentì mancarsi / e si mancò, / […] / si fece mondo / e per sempre incarnata fu anche spazio». Una sorta di capovolgimento del mito di Orfeo ed Euridice, così caro al poeta, dove l’amore nel quale ombra e luce convergono, sono sguardo che non sciupa, né vìola l’ordine dell’esistere.
Un poemetto d’amore che fa spazio al necessario silenzio “non detto” come luogo entro il quale si coniuga la tacita preveggenza dell’àugure, che poi è sguardo poetico in grado di accompagnarci e mostrarci “dell’ombra la luce”.
E non è oscura l’ombra ma il destino umano che ogni giorno ci apre al mondo nell’alba che “sgroviglia” la notte, che nel suo sopraggiungere ci riporterà a disfare la tela per nuovi orditi. Ogni giorno un mondo «nella parola imparata da capo, benché nulla sia prescritto, benché nulla venga aggiunto», che continua e «si intrattiene in silenzio» a mostrare lo scorrere del tempo nella sinergia perfetta di un indissolubile amore che dall’ombra riporta luce, profumi, colori, riverberi, screziature in una complicità tra ragione e cuore, cercata, voluta e trovata nel timore di smarrirsi («benché entrambe si stiano abbracciando / a parole spogliate nel buio»). Una sintesi che si «mèndica», tanto è forte l’esigenza al punto di meravigliarsene e quindi cogliere «l’errante profezia dell’alba». Essa più che metafora di vita è «corpo e carne» ai nostri risvegli, «dipana i sogni» (come già scrisse in Porto Palos, Book, Castel Maggiore 2006), rallegra la fine di notti insonni, consola l’inizio di un partire nuovo pur consapevole del limite, sosta sulle soglie, dove si apre lo spazio del silenzio che lì si trova in un’attesa insperata (ma forse neppure attesa) di essere detto. Fino alla coscienza del buio, quasi trepidante nell’indugio di «denudarlo», di guardarne anche il vuoto con lo smarrimento del tempo che passa. Una luce trema da una porta mal chiusa prima che proprio dal buio si delinei l’essenza silenziosa di altro da noi, eppur così tangente al nostro vivere.
«Di te le cose parlano», scrive Andreotti. Colori e musica e pittura quasi tacitano la parola, e alto e quasi sacrale è il ritmo di questo poemetto, uno scritto impregnato di silenzio, e dal silenzio sembra delinearsi il mondo del poeta che coglie il volo degli uccelli nelle sfumature di un tempo anche nostro. «Si potrebbe anche dire che se il finito è oggetto di conoscenza, l’infinito è invece oggetto di sentimento. E stupisce», scrive in Il silenzio non è detto. Frammenti da una poetica (Mimesis, Milano-Udine 2014), che fa da corollario a Dell’ombra la luce.
Patrizia Garofalo
Angelo Andreotti, Dell’ombra la luce
L’Arcolaio, Forlì 2014, pp. 95, € 11,00