Simon Van Booy
L’illusione della separatezza
Neri Pozza, 2013, pagg. 221, € 16,50
Dal 1939 al 2010: schegge di vita che ci vengono narrate in pochi tratti, come pennellate di colore in un quadro realizzato attraverso decenni. Con un’eleganza stilistica che non è ricercatezza, ma disinvolta conoscenza dei meandri della psicologia umana, e con la poesia che da questa capacità scaturisce, lo scrittore Simon Van Booy ci regala questo romanzo perfetto.
Le esistenze di diversi personaggi, a partire dai tempi di guerra ad oggi, si intersecano attraverso una trama non lineare e dei passaggi di memorie scritte talvolta in prima persona, suggerendo l’effetto di un diario, altre come narrazione d’autore. È così che conosciamo il signor Hugo, ultimo arrivato presso una casa di riposo di Los Angeles, un uomo dal viso sfigurato, anziano dal passato appena intuibile, e un assistente sanitario cui tutti vogliono bene, Martin. Quel Martin che saprà tenerlo abbracciato mentre sta morendo e sussurrargli parole di consolazione e affetto, tanto da far sì che il vecchio per un momento “prenda il cuore di Martin per suo”.
E veniamo a sapere dell’avventurosa vicenda di John, pilota americano caduto nel cielo notturno di Francia e dato a lungo per disperso, e del suo grande amore per Harriet. Anche per lui ci sarà un incontro fatidico, una resa dei conti con un soldato nemico, metafora di tutto ciò che ci appare “altro” da noi, ma che forse è più vicino di quanto si possa pensare, per sentimenti, per emozioni simili in ogni essere umano…
Che dire poi dell’incontro di Anne-Lise, giovane francese appartenente alla Resistenza, con la Storia, sotto le vesti di un piccolo bambino salvato dalla Guerra?
Il passato e il presente, legati più che mai da una continuità che nel romanzo si scopre a poco a poco, fanno da linea conduttrice di questo libro di appena duecento pagine, che sa incantare il lettore e portarlo davvero a sentirsi “connesso con l’universo” come si legge nella citazione di copertina.
Ognuno di noi, anello di una catena che lega l’umanità intera; ogni vicenda buona o malvagia – incasellabile a seconda dei nostri canoni – in grado di far scaturire dell’altro: qualcosa di diverso, qualcosa di più grande di qualsiasi incasellamento. È così che da azioni tremende può derivare un ripensamento, una ridefinizione di sé, in grado di portare a cambiamenti esemplari.
Ci sono, nel romanzo di Van Booy, tanti cenni all’età verde dell’infanzia: bambini. Che, come Danny, vivono con la madre sballottati di qua e di là, perché soli al mondo. E trovano accoglienza in vecchi signori apparentemente poco avvezzi fino ad allora a confrontarsi con bambini. Oppure c’è Amelia, cieca da quando è ragazzina, accudita da ottimi genitori che la crescono nell’indipendenza, o ancora bambini come Sèbastien e Hayley, fantasiosi e inclini ad innamorarsi delle cose passate e sconosciute, sulle quali inventarsi il futuro.
E come il piccolo, uscito illeso dagli orrori di una guerra combattuta da giovani che in realtà speravano in domani migliori, e invece si son trovati a dover sparare e uccidere, a dover dimenticare quanto poi, come una grazia, la vita ha insegnato loro: che niente è separato dal tutto che ci definisce. Solo un’illusione, il pensare la nostra esistenza come cammino solitario e ininfluente per chi ci circonda e per le sorti degli altri.
Annagloria Del Piano