…quella di Diletta, forse, si potrebbe chiamare “malattia dell’anima” dalla quale nessuno può guarire se non ascolta se stesso e non impara a dominare le proprie emozioni.
Entrare in relazione con l’altro significa entrare in contatto con un’altra identità, con qualcuno diverso da me; ed è questo rapporto con l’altro che, mentre genera maggior coscienza della propria identità, arricchisce.
Eppure la diversità, a livello sociale e talvolta anche educativo, viene vista in chiave negativa. … Ah, essere diverso – in un mondo che pure / è in colpa – significa non essere innocente, scriveva Pier Paolo Pasolini.1
Si emargina il diverso e non si comprende che non ha alcuna responsabilità della propria natura. C’è una specie di imprinting che la nostra famiglia, la cultura, la spiritualità d’origine lasciano nell’anima. Questa identità è certo, fonte di diversità, ma è proprio questa la bellezza dell’umanità.
Altra è la prospettiva di Platone che (in La Repubblica – Il mito di Er.) scrive: «Non sarà il daimon a scegliere voi, ma voi sceglierete il vostro daimon». Questa frase è richiamata in epigrafe dal romanzo Daimon di Patrizia Bisi,2 ricercatrice di matematica alla “Sapienza” di Roma e scrittrice creativa al Mit di Boston.
Complessa l’interpretazione del titolo.
Daimon significa destino, energia che pulsa e che spinge, ma nell’intenzione dell’autrice è sofferenza, è “diversità” del proprio esistere rapportato all’altro, una diversità vissuta come malattia, disagio, inquietudine, fuga.
Su questa ambivalenza si snoda la storia di Diletta, la protagonista, in fuga soprattutto da se stessa. È lei che si racconta con snellezza e mobilità in una prosa dal taglio ora diaristico e colloquiale, ora descrittivo e poetico, ora riflessivo e distaccato. Diletta è figlia del maestro-pianista Enrico Lanzetti e di Elisabetta O’Leary, americana creatrice di moda.
“Non è normale” dice la madre. “È una bambina eccezionale” dice il padre concertista. “Speciale ha detto per un po’ e poi sulla mia specialità si è steso un velo”. Per tutti gli altri è una “peste” che colleziona incidenti, che ha comportamenti imprevedibili, che scaglia coltelli e, in conseguenza, trascorre ore e ore negli ambulatori di neuropsichiatria con diagnosi tra autismo e schizofrenia.
L’incipit (Tutto è cominciato la notte in cui un tifone ha spezzato il palo della luce, oscurando il quartiere intorno all’ospedale dove mia madre stava partorendo) è in sintonia con l’intera vicenda che scopre i meandri e gli abissi di una sensibilità perturbata e si ammanta di una sorta di impressionismo plastico tendente alla trasfigurazione simbolica, quasi favolosa. Significativo in tal senso “il nano”/ folletto emerso dal buio di un metrò, dove un giorno Diletta, a undici anni, si è persa: il nano era in frac e canticchiava in falsetto. Da quel giorno è stato sempre con lei, invisibile, come un angelo custode, che però la interroga o la contrasta, come fosse la voce della coscienza e che la chiama affettuosamente ma petite.
Tema complesso e difficile “la diversità” vissuta come malattia che “rapisce i sensi, la coscienza” e apre “il cancello di quel mondo oscuro… che ti risucchia”.
Al lettore, però, la diversità della protagonista non appare tanto una malattia quanto una forma d’incapacità o difficoltà nel non sapersi rapportare agli altri. Diletta più che “seguita” dai genitori sembra “inseguita” nel modo più egoistico e sbagliato. Ella reagisce sempre per impulso riflesso e sovverte ogni ordine tradizionale; in questa lotta impari con il mondo circostante, però, riesce solo ad affermare il valore disperato della vita come istinto e natura. Anche la musica che suona senza saperla leggere, assume toni selvaggi, accenti diabolici.
È “un male di vivere” che nasce dal contrasto tra il proprio “io” e l’ambiente circostante dal quale è catturata. Sofferenza e riluttanza, allucinazioni e dislocazioni mentali s’intrecciano lungo il viaggio in tre tempi che corrispondono ai tre momenti cruciali della vita di Diletta, vissuta tra il reale e il fantastico.
Quella di Diletta, forse, si potrebbe chiamare “malattia dell’anima” dalla quale nessuno può guarire se non ascolta se stesso e non impara a dominare le proprie emozioni.
Romanzo denso ed amaro che rivela una scrittrice affascinata dal senso tragico della vita e nello stesso tempo dalla pietosa penetrazione nell’essenza della natura umana.
Patrizia Bisi, che aveva firmato il suo primo romanzo, con l‘eteronomo Artemisia Boccadoro, dichiara, durante un’intervista, che deve ad Antonio Tabucchi la decisione di uscire allo scoperto firmando questo libro con il suo vero nome ed afferma, con orgoglio, di essere stata allieva al “Program in writing” del Mit di Anita Desai, fra le massime voci della narrativa indiana contemporanea.
Giuseppina Rando
1 P.P. Pasolini, Serenata romana da “La ricchezza”, in Scritti Corsari, Garzanti, 1997.
2 Patrizia Bisi, Daimon, Einaudi, 2005.
Patrizia Bisi di sé scrive: Sono nata con una propensione genetica ereditaria per gli studi scientifici che mi è stata diagnosticata nell'adolescenza. Da qui la laurea in matematica e il ruolo di ricercatrice. Sono cresciuta con i libri, compagna del cuore la letteratura, complice la penna che dalle formule scappava sui fogli dove venivano fuori storie, si materializzavano personaggi. Ho pubblicato il mio primo libro di narrativa sotto pseudonimo – il Viandante di Artemisia Boccadoro – nella casa editrice che ho fondato nel 1992 e portato avanti insieme a un gruppo di donne (edizioni dellautore, senza apostrofo). Grazie al Viandante, e a un italianista, Wiley Feinstein, che ha voluto tradurlo, sono entrata al Program in Writing and Humanistic Studies del M.I.T, a Boston. Dove ho vissuto e lavorato per due anni, ho partecipato ai laboratori di scrittura tenuti da Anita Desai e Alan Lightman, ho portato a termine il mio romanzo: Daimon (Einaudi 2005, Premio Rapallo-Carige, Premio Città di Bari). Romana, vivo da molti anni nella campagna della Tuscia viterbese.
www.patriziabisi.com