Tommaso Labranca
Il Piccolo Isolazionista
Prolegomeni a una metafisica della periferia
Castelvecchi Editore, 2006, pagg. 236, € 13,00
Il Piccolo Isolazionista o dei prolegomeni a una metafisica della periferia. Detto così, sembra tutto alchemico o arduo od oscuro. Il panorama mentale si rischiara improvvisamente, pur nelle brume notturne e autunnali, una volta che si è a bordo del pullman che vagherà fra tangenziali e periferia urbana. Tommaso Labranca, con il suo editore Alberto Castelvecchi, ha deciso di presentare in una maniera del tutto originale il suo ultimo libro, Il Piccolo Isolazionista: un reading tour, su un bus, negli esterni meandri della metropoli addormentata e nella loro muta “monumentalità”, fra le luci ora soffuse e diffuse ora potenti e violente dell’hinterland e dintorni, fra cantieri, semafori, binari, capannoni, cattedrali dell’industria e della produzione, all’ombra dei palazzi dormitorio della working class, stranite commistioni di cose e anime.
Dolente e suadente la voce di Labranca ripercorre i suoi itinerari, annosi, per vie abbandonate o anonime, nelle ore del silenzio, su nastri d’asfalto diversi e tutti uguali, dai dechirichiani ambienti aerei, sospesi, oltre il postmoderno, della Bicocca, alla vela di vetro e acciaio di Fuksas, dall’inceneritore alla sfilata di autogrill e centri commerciali, sino ai torreggianti edifici di QT8. Il ritorno, a chiudere il ciclo, nell’emblematica e fantasmatica piazza del Calendario.
«Guardate fuori– si rivolge l’autore, con malinconica e disperata ironia, ai giornalisti che porta a spasso – guardate gli scenari che mi hanno ispirato in questi quattro anni di visite. Non bisogna conoscere i nomi delle strade. Sono partito dal presupposto che tutte queste strade si somiglino. Ogni periferia è trasportabile e smontabile».
Dal capitolo 087 del libro... «Mi piace starmene qui sull’anello più esterno di Saturno a inebriarmi di gas di scarico, a cercare ispirazione nelle luci industriali, angosciato dal tempo che butto via, dalle pressioni di chi si aspetta qualcosa da me nei termini previsti. Mi trovo a mio agio soprattutto quando vedo il cielo che inizia a oscurarsi. In fondo l’unico diritto che mi arrogo è quello di rinchiudermi in un mondo fatto di crepuscoli, di suoni elettronici e di assenze umane». Un libro-diario, un libro, senza l’arroganza d’esserlo, filosofico. Amaro e sarcastico. Ogni capitolo, che si può decontestualizzare e leggere a sé, è un flash di meditazioni sbattute in faccia, beffardo, impietoso e, nella sua provvisorietà, definitivo: della pienezza del vuoto.
Il Piccolo Isolazionista, alter ego dello scrittore, dietro i vetri protettivi dell’autovettura, al ritmo del suo personalissimo soundtrack – esemplare l’ossessivo Autobahn dei Kraftwerk, cui sono dedicate due pagine – osserva come da un oblò questo mondo e riflette sulla propria alienità, sull’inutilità dei nostri ruoli: «Dopo una vita passata a voler rapportarmi con gli altri e ad essere stato ai margini, ora che ai margini ci sto bene, perché accusarmi di snobismo? Mi fa male che mi diano dello snob, molto più male dell’essere ai margini».
Non bisogna commettere tuttavia l’errore di ritenere questo libro un’autobiografia. È qualcosa di più. Un libro di denuncia? Neppure. «Che cosa muove il mio libro? Nulla. Io invidio chi scrive qualcosa d’impegnato, che resti, come ha fatto Saviano con Gomorra. Ma dobbiamo prendere atto del fatto che ci sono persone che non hanno da scrivere che i propri problemi. Il Piccolo Isolazionista è uno spettatore, non un attore». Eppure l’inchiostro versato da Labranca non è un manifesto di neonichilismo. Semmai, coraggioso. Sui limiti della condizione umana.
Eppure questo sentirsi inadeguati o campioni della scrittura inutile, sprigiona, con la consapevolezza, una forza inusitata, stordente e avvolgente, come questo viaggio-non viaggio su un pullman noleggiato. Dalla periferia della metropoli lo sguardo può vagare verso più vasti orizzonti. Come lo spirito oltre qualsiasi barriera o confine.
Alberto Figliolia