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Giuseppina Rando. Azione 
L’umanità di Simone Weil
01 Ottobre 2014
   

professoressa e contadina, intellettuale e operaia, pacifista e militante della Resistenza, bolscevica e, suo malgrado, credente sino al punto di essere condotta attraverso i sentieri della mistica.

 

 

Simone Weil, assieme a Edith Stein e Hanna Arendt, è tra le figure più significative del pensiero femminile del Novecento. Diverse tra loro per esperienze di vita e iter speculativo, queste tre intellettuali rivelano non poche affinità attorno ad alcuni nuclei tematici che poi altro non sono se non le tre realtà fondamentali dell’esperienza dell’uomo contemporaneo: l’amore per la ricerca e lo studio, il valore della libertà, il dramma del male e del dolore.

Temi, questi, che nelle pagine di Simone Weil s’impongono per schiettezza e originalità.

Due poi gli aspetti particolarmente singolari e caratterizzanti la sua personalità: il primo legato alla sua figura spirituale intrisa d’amore verso la vita e il mondo, il secondo, quasi consequenziale, alla ricerca costante della Verità.

Desiderio di verità e continuo sforzo d’attenzione per afferrarla costituiscono così le dimensioni dell’esistenza della Weil, la cui “azione è pensata” e, innalzata a dottrina, non resta mai astratta, ma si trasforma in condotta e programma di vita. Pensiero e azione, esperienza e riflessione si intersecano continuamente e non si può conoscere un aspetto senza l’altro.

Le sue riflessioni sono così intense e profonde che provocano in lei un costante senso di insufficienza: essere ebrea era per Simone come vivere stretta in una morsa soffocante, soprattutto perché non riusciva a comprendere un Dio che “elegge” alcuni ed esclude altri ed è per questo che rifiuta l’appartenenza al popolo ebraico.

Irrequieta e indipendente, rigetta sempre schemi ed etichette e si impone uno stile di vita caratterizzato da una severa disciplina fisica e psicologica al fine di realizzare, in una continua ascesi, il proprio sviluppo umano e intellettuale.

Presa da una inestinguibile sete di verità, affronta molteplici e spesso contrastanti esperienze: professoressa e contadina, intellettuale e operaia, pacifista e militante della Resistenza, bolscevica e, suo malgrado, credente sino al punto di essere condotta attraverso i sentieri della mistica.

Si legge nei suoi Quaderni: ...ho vissuto l’impegno di pensatrice come cosa esclusivamente in atto e pratica.1

Anche se schierata dalla parte degli “ultimi”, di coloro che lavorano e soffrono, non sposa alcuna ideologia: né con la Chiesa né con Marx; resta assolutamente libera (si pensi a Ignazio Silone, cristiano senza Chiesa, socialista senza partito).

Chi legge L’ombra e la grazia2 ha la conferma che la Weil non ha cessato mai un istante di perseguire la strada della ricerca verso la verità assoluta:

Una volta capito che si è nulla, il fine di tutti gli sforzi è diventare nulla. Tendendo verso questo fine si soffre con accettazione, tendendo a questo fine si agisce, tendendo a questo fine si prega. Dio mio, concedimi di diventare nulla.3

se il grano non muore… deve morire per liberare l’energia che porta in sé perché se ne formino altre combinazioni. Egualmente noi dobbiamo morire per liberare l’energia schiava dell’attaccamento, per possedere una energia libera suscettibile di entrare in un rapporto vero con le cose.4

Da queste e altre affermazioni sembrerebbe vicina al credo cristiano, ma la filosofa ha chiaramente detto di non voler appartenere ad alcuna religione e di non volere sacrificare un’identità per poi abbracciarne un’altra.

Tutto ciò carica di fascino la figura di questa intellettuale che, come lei stessa ha chiarito, preferisce rimanere sulla soglia ma che, tuttavia, attraverso i suoi pensieri testimoniati dall’esempio di vita, avrebbe molto da suggerire ai cosiddetti cristiani.

Il suo pensiero appare oggi estremamente utile perché ci dà una chiave di lettura per capire il nostro tempo e il concetto di “umanità”. Umanità non intesa in senso generico, ma come attenzione al singolo uomo, valutato sia individuo per individuo sia, contemporaneamente, nei rapporti con gli altri, nel lavoro delle fabbriche, per le strade. Per questo la studiosa ha voluto sperimentare in prima persona il lavoro in fabbrica; da qui la descrizione della condizione operaia e l’affermazione che le fabbriche sembrano gironi danteschi e la catena di montaggio come schiavitù… come sarebbe bello lasciare l’anima dove si mette il cartellino di presenza e riprenderla all’uscita. Ma non si può. L’anima si porta con sé in officina. Bisogna farla tacere.5

Scelta coraggiosa la sua, anche perché non apparteneva a quella classe sociale né per nascita né per educazione. Il suo metodo d’indagine, dal di dentro e dal basso, rende ancor più vera la sua scrittura e per i lettori di oggi è una rara testimonianza:

Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni esterne (una volta avevo creduto trattarsi di ragioni interiori) sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costruzione brutale e quotidiana… Non sono fiera di confessarlo… Mettendosi dinanzi alla macchina, bisogna uccidere la propria anima per 8 ore al giorno, i propri pensieri, i sentimenti, tutto… Questa situazione fa sì che il pensiero si accartocci, si ritragga, come la carne si contrae davanti a un bisturi. Non si può essere coscienti.6

È il dramma di chi avverte il conflitto tra la materia e lo spirito, tra il corpo e l’anima.

Ancora oggi c’è da chiedersi: i risultati della scienza e della tecnica contribuiscono a far sì che l’uomo si realizzi nella sua integrità di persona? Sembrerebbe proprio di no, tanto per la pensatrice francese, che ha posto alla base del suo pensiero la dimensione interiore di ciascuno e il valore dell’esistenza umana, quanto per noi, che oggi assistiamo continuamente alla catastrofe dell’anima vestita con gli abiti dell’egoismo, del conformismo e dell’indifferenza.

La rivolta sociale – sostiene la Weil – potrebbe essere giustificabile, ma non bisogna illudersi che possa risolvere i veri problemi dell’uomo, i quali trovano radici nel profondo del suo animo: ... in questa rivolta contro l’ingiustizia sociale l’idea rivoluzionaria è buona e sana. In quanto rivolta contro l’infelicità essenziale inerente alla condizione propria dei lavoratori, è una menzogna. Perché nessuna rivoluzione potrà abolire quell’infelicità.7

La studiosa si rende conto delle gabbie nelle quali può cadere l’uomo contemporaneo.

Neanche il marxismo, alla cui ideologia ha creduto per anni, può dare all’uomo ciò di cui interiormente ha bisogno, ciò a cui l’anima aspira. Comprende allora che quella macchina che stritola ogni ideale umano si chiama collettività, si chiama stato, nazione, struttura militare, burocrazia: sono questi i veri nemici dell’individuo perché chi pensa è il singolo, non la comunità.

È qui che la Weil ri-torna in se stessa, per ritrovare un Dio infinitamente piccolo che poi si rivela infinitamente lontano, quasi assente, e sarebbe persino assurdo pregarlo per risolvere le nostre questioni private. L’uomo è nel mondo e nel mondo risiede il dolore. Nell’attraversare il dolore, sola con se stessa, l’anima incontra Dio che è lo stesso Cristo della croce, della sofferenza.8

Nella solitudine e nel silenzio, si delinea in lei la prodigiosa intuizione dell’indicibile e dell’inesprimibile.

L’incontro con Dio, come lei stessa racconta, avviene nel giorno di Pasqua del 1938, mentre si trova in preghiera nella Cattedrale di Saint-Pierre de Solesmes: … avevo emicranie violente, ogni suono mi faceva male come un colpo e solo un estremo sforzo d’attenzione mi permetteva di uscire dalla mia misera carne, di lasciarla soffrire sola, rannicchiata in un angolo e di trovare una gioia pura e perfetta nell’inaudita bellezza del canto e delle parole. Quell’esperienza mi ha permesso, per analogia, di comprendere meglio la possibilità di amare l’Amore divino attraverso la sofferenza.9

In ogni sua azione vuole condividere le sofferenze di tutti gli uomini del mondo, anche se riconosce di non appartenere al mondo, perché proprio nel mondo si è divorati dalla follia dell’indifferenza e della distrazione, dalla banalizzazione delle cose essenziali della vita e della perdita dei valori.

Da qui tutto il suo travaglio e il suo misticismo.

Superata la propria appartenenza all’ebraismo, letti e studiati tutti i testi religiosi Vedici, amato i miti dell’antica Grecia, la Weil, grazie alla libertà del proprio pensiero, si pone al crocevia delle tradizioni mistiche dell’umanità, senza legami di appartenenza, e incarna il senso dell’universalismo religioso di cui oggi si avverte il bisogno.

Nell’ultimo periodo della sua vita Simone è convinta che le idee che si depositano in lei discendano dall’Alto e sono idee a cui ritiene di dovere ubbidienza assoluta.

Quando ormai la sua condizione fisica è irrimediabile, in una lettera del 18 luglio 1943 inviata ai genitori così scrive: ho una specie di certezza interiore che si trovi in me un deposito puro da trasmettere. Soltanto che l’esperienza e l’osservazione dei miei contemporanei mi persuade sempre più che non ci sia nessuno in grado di riceverlo.10

Quanto più si chiarisce in lei il rapporto tra spiritualità, cultura e politica, tanto più aumenta la necessità di comunicare agli altri il proprio pensiero in maniera unitaria e coerente, ma non ci riesce.

Sparisce presto dal mondo, ma lascia per tutti un messaggio chiaro e forte:

Le verità fondamentali sono semplici. La difficoltà è nell’applicazione … Ma la prima difficoltà è nelle parole. La verità abita nel fondo del cuore di ogni uomo, ma così profondamente nascosta che è difficile tradurla nel linguaggio.11

 

Giuseppina Rando

 

 

1 Simone Weil, Quaderni, voll. 4, Milano, Adelphi 1982-1993, IV, p. 396.

2 Simone Weil, L’ombra e la grazia, trad. di Franco Fortini, Bompiani, Milano 2002, p. 326.

3 Ivi, pag. 46.2.

4 Ivi, pag. 47.1.

5 Simone Weil, La condizione operaia, SE, Milano 1994, p. 183.

6 Ivi, p. 34.

7 Ivi, p. 283.

8 Bruna Dell’Agnese, Il teatro dell’assenza, Bergamo, Moretti &Vitali 2007, p. 61.

9 Simone Weil, L’attesa di Dio, Rusconi, Milano 1999, pp. 41-42.

10 Simone Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, Gallimard, Paris 1957, p. 250.

11 Ivi, p. 151.

 

 

[“Azione” è tratto da: Le belle parole, Scrittura Creativa Edizioni, Borgomanero (No), 2013]


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