Erano i primi anni Sessanta, nella frazione di un comune nei pressi di Roma. Con il Boom i numerosi membri della famiglia D. G. si dispersero in breve, cercando lavoro o fortuna altrove, e la casa che era tra le più rumorose della borgata tutto a un tratto cessò quasi di respirare. Dell’orto rimase appena qualche traccia e così del pergolato e del giardino, e il resto della proprietà divenne polvere gialla.
Antonio, il figlio più grande, rimase a vivere da solo nella casetta trasformata in parte in rimessa, che affittata a uno sfasciacarrozze gli rendeva quel poco che bastava per tirare avanti; in realtà a casa ci stava poco, usciva la mattina e tornava la sera, la sua giornata se la viveva per le strade del paese, che in quegli anni era tutto un cantiere. Era una figura così familiare che tutti lo chiamavano Zi’ Anto’.
Zi’ Anto’ faceva tappa dal tabaccaio, nei bar, all’osteria di Angelo, davanti alla scuola quando uscivano i bambini, per aiutarli ad attraversare la strada. Si lasciava andare a qualche bicchiere di troppo, ma non era fastidioso. Anzi, chissà come, era migliorato rispetto a quand’era più giovane, e tutti lo ricordavano prepotente e attaccabrighe.
Zi’ Anto’ portava sempre i soliti panni, quasi sicuramente ci dormiva pure, ma non aveva l’aria del tutto trasandata. Quando entrava nei luoghi pubblici si comportava con garbo e con una punta di signorilità, che lo rendevano bene accetto almeno per la prima mezz’ora di permanenza. Dopodiché veniva messo gentilmente alla porta e lui si scusava e ringraziava, con la promessa (che per tutti suonava come una minaccia) di rifarsi presto vivo.
Un bel giorno si vide Zi’ Anto’ seguito da un grosso cane dal pelo folto e arruffato e lo sguardo buono. Divennero inseparabili.
Zi’ Anto’ si sentiva importante col suo cane al seguito, al quale impartiva lezioni di buon comportamento affinché non lo facesse sfigurare. Gli dette anche una bella ripulita, per la buona reputazione di entrambi.
Il problema era che il cane non poteva seguire il suo padrone all’interno dei vari locali, e Zi’ Anto’ rimediò addestrandolo ad aspettarlo buono buono in un angolo di strada... E questo andò a vantaggio anche dei vari gestori, poiché le visite di Zi’ Anto’ non si prolungavano oltre il quarto d’ora.
Giravano per il paese, il cane e Zi’ Anto’, facendo amicizia con tutti.
– Zi’ Anto’, ma come si chiama ‘sto cane? – gli chiedeva qualcuno.
– E che ne so, mica c’aveva la medaglietta al collo, quando l’ho trovato!
– Vorrai dire quando lui ha trovato te, – gli rispondeva qualche spiritoso.
– E si vede che cercava un padrone come si deve, – ribatteva Zi’ Anto’.
Ed era veramente un buon padrone, Zi’ Anto’, che con il suo cane divideva tutto. Mangiavano insieme, seduti in qualche posto, spartendosi i bocconi.
La salute di Zi’ Anto’, mai stata buona, tendeva a peggiorare. Il suo aspetto non prometteva nulla di buono, e tutti cominciarono a schivarlo. Ciò influì sul suo umore, rendendolo tetro e aggressivo e sempre più dipendente dall’alcol. Spesso non rientrava a casa e passava la notte in un angolo del marciapiede col suo cane accucciato accanto. Finché non fu caricato a forza su un’ambulanza e di lui non si seppe più nulla. Il suo cane restò ad aspettarlo per giorni e per settimane senza mai allontanarsi da quella che era stata la cuccia del suo padrone, di cui restava solo un vecchio maglione impregnato del suo odore di alcolista.
Poi il cane si mise a sbraitare alla luna, e su richiesta dell’intero quartiere intervenne l’accalappiacani. E neppure di lui si seppe più nulla. Ma Zì Anto’ non fu dimenticato, e si racconta ancora del suo cane che lo aveva seguito fino in fondo nel suo destino di randagio.
Maria Lanciotti