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Maria Paola Forlani. Veronese e Padova 
L’artista, la committenza e la sua fortuna
11 Settembre 2014
 

Il cromatismo limpido e armonioso, gli audaci impianti architettonici, la forza scenografica delle composizioni, perfino l’intensa drammaticità nei soggetti sacri dell’ultimo periodo: quella di Paolo Veronese è stata una pittura potente e di straordinaria forza comunicativa, capace di influire sulla produzione artistica di tanti contemporanei e d’intere generazioni d’artisti, ovunque egli sia stato chiamato ad operare. Fu così anche a Padova, città con la quale Veronese ebbe intensi rapporti a partire dal 1556, soprattutto grazie all’illuminata committenza dei benedettini – apportando nuova linfa alla civiltà figurativa locale.

Da allora non fu più possibile prescindere dall’esperienza veronesiana che diverrà termine fondamentale di confronto con i nuovi protagonisti della scena locale.

La mostra “Veronese e Padova. L’artista, la committenza e la sua fortuna” (Catalogo Skirà), prende le mosse proprio dai capolavori di Paolo Veronese realizzati a Padova, riuniti per l’occasione nelle sale dei Musei Civici agli Eremitani, nell’insieme con circa cinquanta dipinti e una quarantina di stampe tratte dai lavori del pittore, a cura di Davide Banzato, Giovanna Baldissin Molli ed Elisabetta Gastaldi, aperta fino a gennaio 2015, con sola eccezione dell’inamovibile Pala di Santa Giustina, che si può ammirare nella omonima basilica.

In mostra anche l’Ascensione di Cristo di Veronese, della Chiesa padovana di San Francesco, oggetto alla fine del Cinquecento del furto clamoroso della parte inferiore. Per la prima volta, torna a Padova la parte inferiore trafugata della tela, identificata solo negli anni Sessanta del Novecento in un’opera dell’Arcidiocesi di Olomouc in Boemia.

La mostra svolge una attenta riflessione sul lascito di uno dei maggiori artisti del Cinquecento, che prosegue in un denso excursus tra eredi, emuli e interpreti dello spirito e delle invenzioni veronesiane nel contesto patavino tra XVI e il XVII secolo: dal fratello Benedetto Caliari e i figli Carletto e Gabriele – gli Haeredes Pauli operosi anche a Santa Giustina – a Giovanni Battista Zelotti, Dario Varotari, Lodovico Pozzoserrato e Giovanni Battista Bissoni. In risposta alla pittura d’ispirazione tizianesca del Padovanino, Pietro Damini lavora in termini veronesiani, mentre, con l’avanzare del Seicento, Girolamo Pellegrini – punto d’incontro tra la tradizione romana cortonesca accolta dal Liberi e quella veneta – il pittore fiammingo Valentin Lefévre, Giovanni Antonio Fumiani e Sebastiano Ricci individuano l’opera di Veronese quale elemento fondante per la nascita del Rococò nel Veneto e la sua diffusione su scala europea.

Una vicenda intensa, che prende avvio la metà degli anni ’50 quando Paolo viene chiamato dal vescovo di Padova Francesco Pisani a realizzare la Trasfigurazione (1556) per l’altare del duomo di Montagnana ove il prelato aveva una villa, e in seguito dalla famiglia Cantarini, che secondo le fonti possedeva in una delle residenze padovane opere del Veronese.

Siamo agli inizi della prima maturità dell’artista che, seppur proveniente dalla terra ferma, aveva già raggiunto fama e successo nella Serenissima, dove si era stabilito con la bottega tra il 1554 e il 1555, e aveva già avviato i primi importanti lavori in laguna: a Palazzo Ducale, nella Chiesa di San Sebastiano e per la Libreria Marciana.

Verona d’altra parte era uno dei centri d’elaborazione artistica cui Padova si rivolgeva da tempo, con una ‘trama di rapporti’ che coinvolgeva già il vecchio Antonio Badile, maestro e, a partire dal fatidico 1556, suocero di Veronese.

Allo stesso anno i più recenti studi riconducono anche il bellissimo Martirio di Santa Giustina, opera dai colori smaglianti e preziosi che Pallucchini definì “uno dei dipinti più significativi dell’adesione giovanile di Paolo alla cultura del Manierismo” e che deve considerarsi il prototipo di altre tele di analogo soggetto. Collocato forse originariamente nella cappella del padre abate passato nella Galleria abbaziale di Santa Giustina, il dipinto – con cui si apre l’importante esposizione degli Eremitani – segna l’avvio fecondo e continuativo rapporto del pittore con i Benedettini del Padovano. Pochi anni dopo nel 1562, l’abate Placido II da Marostica commissiona al Veronese, per l’Abbazia di Praglia, la Gloria d’angeli e il Martirio dei santi Primo e Feliciano, due grandi tele centinate poste negli altari ai lati dell’altare maggiore.

In quello stesso periodo l’artista stava realizzando le pale del monastero benedettino di Polirone, a San Benedetto Po, appartenente alla medesima congregazione e aveva da poco ultimato gli affreschi di Villa Barbaro a Maser.

La mostra vanta anche due rarità del corpus veronesiano, entrambe di proprietà dei Musei Civici, come la Crocefissione unica opera nota su lavagna di Paolo Veronese – dipinta per i benedettini all’inizio dell’Ottanta – e la Madonna e l’angelo (1582), un’opera incompiuta.

All’onda lunga dell’attività della bottega e degli eredi, seguita alla morte di Paolo, alla traduzione dello stile del maestro nelle decorazioni d’interni, condotta soprattutto dal veronese Battista Zelotti, alle realizzazioni – infine – di Dario Varotari in chiave più domestica, era già succeduta una nuova fase: quella dei copisti, degli emuli e di quanti s’ispiravano all’arte del Veronese, alla sua ricchezza di immagini e alla brillantezza dei colori.

 

Maria Paola Forlani


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