La trazzera scoscesa e con sassi, frasche e frequenti fossi rendeva il percorso ancora più lento e faticoso. In alcuni punti vi erano dei veri e propri dirupi e la donna, avvolta in uno scialle, un tempo nero, ora striato dal verde-rame al grigio, seguiva a fatica il ragazzo che, invece, con agilità superava ogni ostacolo e non solo per l’età, (aveva appena quindici anni) ma anche per quella gioia che da qualche giorno aveva preso tutto il suo essere: partire, andare lontano, dallo zio Turi, in America.
Indossava il vestito delle feste, ma ancora con la fascia nera al braccio per il lutto del padre, morto durante una rivolta contadina, organizzata dai “Fasci dei lavoratori”. In testa portava un berretto, all’interno felpato e di cotone ruvido, all’esterno a quadretti bianchi e neri, confezionato dalla madre, donna Rosa perché in quelle terre lontane e sconosciute, il suo Filippo avesse qualcosa del calore materno.
Era ottobre inoltrato e già un gelido vento spirava dal Monte S. Calogero: ma né madre né figlio, presi dai propri pensieri, pareva ne provassero fastidio.
L’alba era spuntata da poco e ancora dovevano fare molta strada. Il treno partiva alle ore otto.
Come bagaglio il ragazzo aveva soltanto un fagotto con dentro qualche indumento intimo.
Alla stazione del paese l’attendeva Michele, figlio di comare Nunzia, sua madrina di battesimo.
Filippo e Michele, insieme, avrebbero affrontato il lungo viaggio per gli Stati Uniti. A New York, allo sbarco, l’accoglienza di alcuni compaesani e poi i due sarebbero andati a Boston, dove lo zio Turi e il padre di Michele lavoravano già da qualche anno ad una linea ferroviaria.
Donna Rosa, vedova ormai da più di dieci anni, viveva, anzi sopravviveva alla miseria e alla rinuncia; malaticcia, poteva fare solo qualche servizio presso la bottegaia della contrada di S. Calogero. Da quando il cognato Turi era andato a cercar fortuna in America, ogni tanto arrivavano, tramite il parroco, dei denari, ma bastavano a stento per le medicine. Filippo, aveva appena sette anni, quando cominciò a lavorare come incartatore in un magazzino d’agrumi; così portava a casa qualcosa come una pagnotta o una gallina. Non andò mai a scuola, anche perché la più vicina era a Sciacca e là andavano solo i figli dei ricchi. Adesso Filippo era felice perché lasciava la sua misera terra di limoni e di aranci e andava verso quell’altra che tutti descrivevano come il paradiso in terra.
Intanto madre e figlio, per vicoli a scalini, malamente acciottolati, sudici, maleodoranti, erano già arrivati nei pressi della stazione. Michele era già là ad attenderli, seduto sullo scalino della soglia della bottega di don Melo, l’unico fabbricatore di pasta al tornio del paese.
Il pastaio, dal volto solcato da profonde rughe, già al lavoro, stava portando fuori dalla bottega buia come un antro, i cavalletti e la pasta stesa sulle canne per asciugare. Appena vide donna Rosa si affrettò ad andarle incontro, salutarla e dirle una parola di conforto, visto che stava per separarsi dall’unico sostegno e conforto.
– Buon giorno, donna Rosa, coraggio! Vedrete che Filippo in America farà fortuna e vi ricompenserà di tutti gli strazi che state soffrendo.
La donna, a quelle parole, si sentì come rinascere, come se una mano benevola gli togliesse dal cuore il macigno che l’opprimeva. Si fermò e abbracciò Michele che si era alzato per andarle incontro. Intanto il pastaio, assumendo un atteggiamento da profeta, continuava:
– Onorerà la memoria di suo padre, morto per difendere il lavoro e la povera gente. Sta cambiando il vento… donna Rosa! Ora sappiamo far valere i nostri diritti, è finito il tempo di chiedere e di sperare nella carità degli altri.
La donna in silenzio si asciugava le lacrime che scendevano sul pallido volto, ancora giovane e bello, anche se velato da tristezza e un po’ alterato nei lineamenti, nei suoi occhi neri, però, pare che quelle parole avessero acceso un lampo di speranza.
Lentamente i tre s’incamminarono verso la stazione da dove proveniva un vociare, sempre più intenso. Sullo spiazzo della stazione, accanto ai binari c’era un folto gruppo di uomini e ragazzi, una trentina, che quella mattina attendevano il treno per Palermo da dove si sarebbero imbarcati sul piroscafo per New York.
L’unica donna, presente a quella partenza, era lei, donna Rosa, le altre avevano salutato i loro uomini a casa. Si strinse a sé il ragazzo e rimase così, fin quando Michele non glielo strappò con furia, dicendo: – Ora basta! Si parte, finalmente!
Il treno si mosse lentamente, gli sbuffi di vapore dalle rotaie in moto, avvolsero la nera e statuaria figura della donna che, non si sa per quanto tempo, rimase immobile a guardare fissa verso quel punto in cui il treno scomparve. Il vapore si mutò in nebbia che si sollevò al lieve soffio del vento per unirsi al corteo di altre nuvole grigie, in cielo.
Era il 30 ottobre del 1903.
A Boston Filippo fu accolto in casa dello zio Turi, fratello del padre, che lo inserì nel lavoro della linea ferroviaria che doveva collegare Boston ad Augusta.
Lavoro duro e pesante che il ragazzo, asciutto e scostante, affrontò sempre con lena e coraggio.
Dopo qualche anno, però, in seguito ad una bronchite il suo fisico ne risentì e fu costretto a cambiare, prima fece per diversi mesi il cardatore, presso un lanificio e in seguito si adattò a tutti i mestieri, dal cuoco al barbiere.
Riuscì così a pagare, in un tempo inferiore a quello previsto, il debito che lo zio aveva contratto per il viaggio.
Intanto si era fatto un giovanotto, non alto di statura, ma dall’aspetto piacevole e dal carattere deciso: di fronte agli ostacoli da superare o ad uno scopo da raggiungere non si tirava mai indietro.
La sua apparente tranquillità nascondeva fermezza, solidità e tenace pazienza; l’integrità dei suoi sentimenti si manifestava anche nei rapporti con i compagni di lavoro che avevano per lui una certa forma di rispetto: era sempre disponibile e per questo gli perdonavano la collera che di tanto in tanto l’afferrava.
Uno dei primi obiettivi che si propose da raggiungere fu quello di sganciarsi dai vincoli di sudditanza nei confronti dei vari padroni, avere autonomia e indipendenza e, come ripeteva spesso, ritornare in Sicilia da “padrone” per far felice la madre ed onorare la memoria del padre.
Esaurito il debito, si congedò dalla casa dello zio e prese in affitto due stanze, dove la domenica riceveva pochi amici, introversi come lui, con i quali si perdeva in lunghi, interminabili discorsi sulle disuguaglianze tra gli uomini, sull’ingiustizia, sulle varie forme del “Potere” e tanti altri argomenti che affascinavano le menti di giovani desiderosi di cambiare il mondo.
Orgoglioso, soffriva molto del fatto che non sapeva leggere e scrivere, per cui era costretto a ricorrere ai vari compaesani per inviare sue notizie alla madre, pure lei analfabeta. Era il parroco di S. Calogero che leggeva a Donna Rosa le lettere che arrivavano dall’America e rispondeva puntualmente.
Quando Filippo seppe che si era aperto un corso di lingua americana per gli immigrati nel quartiere New Moon, si iscrisse e lo frequentò con interesse. Fu una sorpresa: i maestri, diversi, parlavano anche l’italiano e per chi era analfabeta nella propria lingua, poteva imparare anche quella.
Filippo non imparò a leggere e scrivere, né in italiano né in americano, ma certamente la frequenza a questa scuola gli cambiò il corso della vita: conobbe altri immigrati e tra questi Tony Alliata con il quale si stabilì subito una corrente di simpatia.
Tony era abruzzese: un giovane intelligente, giunto a Boston con i suoi genitori da pochi anni; sapeva leggere e scrivere in italiano e l’inglese l’aveva imparato da uno zio materno in Italia. Frequentava la scuola solo per approfondire le sue conoscenze e poi era amico di alcuni insegnanti ed allievo dello scultore Gutzon Borglum che, in seguito, sarebbe diventato il direttore dei lavori, nello Stato South Dakota, di quell’originale monumento agli eroi del West e dei busti di quattro presidenti americani, scolpiti nel granito del monte Rushmore.
Leggeva molte riviste e libri di storia sia italiana che americana e mostrava per Filippo tenerezza ed affetto. Lo chiamavano tutti “Tony l’artista” perché amava scolpire in legno e in pietra, dipingeva ed amava la musica. Socievole, esercitava un certo fascino su quanti lo avvicinavano.
Filippo quando era con lui si sentiva rinascere e per questo, tutte le sere, dopo il lavoro, si recava a casa sua, frequentata da altri giovani che condividevano con lui l’amore per la scultura. Per Filippo era un divertimento osservare Tony mentre scolpiva il legno o la pietra. Presto imparò anche lui e, sotto la guida dell’amico scolpì in pietra qualche statua e diversi busti e bassorilievi. La casa di Tony era un vero e proprio laboratorio di artisti e fu qui che Filippo conobbe Marzia, una ragazza di sedici anni, dallo sguardo luminoso, fulminante e dalla voce suadente.
Marzia e Filippo si innamorarono e vissero, per alcuni mesi, momenti di vera felicità.
Filippo contava presentarsi al padre e chiedere la fanciulla in sposa e realizzare così il suo sogno.
Don Vito Lo Castro, invece, molto ricco e uno degli uomini più potenti fra gli italo-americani di Boston, seppe subito dell’ ardente amore dell’unica figlia, ma era di ben altro parere: aveva su Marzia progetti più ambiziosi e, come genero, aveva scelto un giovane politico della città. Tuttavia non contrastò apertamente la ragazza e “alle persone di fiducia”, che gli avevano riferito del fidanzamento segreto, rispose di considerarlo solo un capriccio passeggero della sua bambina.
Era gennaio e sera inoltrata. Da diversi giorni nevicava e la città era sotto un manto bianco.
Filippo, intabarrato nel suo cappotto marrone, stava per rientrare a casa, quando all’improvviso, un negro, alto e possente, sbucò dalla siepe accanto al cancello, lo afferrò dalle spalle con le sue enormi braccia e, dopo avergli sferrato alcuni pugni in faccia, lo scaraventò contro un grosso masso, posto accanto alla porta d’ingresso. Il colpo fu violento e il giovane siciliano perse i sensi.
Svenuto e con la testa sanguinante rimase là, tra l’enorme masso e la neve, per tutta la notte. Solo all’alba, soccorso da un passante, fu trasportato in ospedale, dove, a seguito del grave trauma cranico riportato, stette in coma per un mese. Quando si svegliò, le sue facoltà mentali risultarono decisamente alterate: non riconobbe né il cugino Michele né lo zio Turi, le uniche persone che non lo abbandonarono nella disgrazia.
La mente del giovane era come devastata ed aveva cancellato gran parte del proprio passato.
Il sogno d’amore con Marzia, poi, si frantumò in mille pezzi assieme alla sua mente, là su quella pietra che egli stesso aveva trasportato davanti l’ingresso di casa per scolpire una statua alla bellezza di lei.
Lo stesso giorno che fu dimesso dall’ospedale, mentre ancora Michele e lo zio Turi discutevano sul come affrontare quello che i medici avevano chiamato “un lungo periodo di cure per ritornare alla normalità”, si presentarono alla porta di casa di Filippo, due uomini che si dissero essere mandati dal Consolato: gli consegnarono la lettera di rimpatrio, il passaporto e una busta con del denaro.
Nel documento stava scritto: “Inabile al lavoro, in seguito ad una accidentale caduta. Obbligo di rientrare in Sicilia. La ditta presso la quale ha lavorato ha provveduto alla liquidazione”.
Nel marzo del 1927 Filippo fece rientro al suo paese.
A donna Rosa, sempre più consunta dalla malattia e dal dolore, ormai vicina alla morte, l’America dei miracoli aveva restituito un figlio che non la riconosceva, un figlio che non l’ha più chiamata “mamma”, un figlio che diceva essere un giorno Napoleone, un altro Garibaldi, un altro ancora Giulio Cesare, un figlio in perpetuo delirio che stava sempre a scavare, nel grande podere che si era comprato con i soldi portati dall’America.
Scavava e scavava cunicoli sotterranei e scolpiva “teste” nelle pietre che accatastava fino a formare delle altissime piramidi.
La sua mente si era sgretolata come la pietra sotto i colpi delle scalpello, mantenendo, però, la capacità creativa nell’intento di costruire un monumento al Potere.
– È la testa che comanda! – ripeteva nei lunghi monologhi con le pietre del suo giardino.
La sua mente si era sgretolata in schegge di delirio persecutorio e di mania di grandezza:
– Sono il re della terra! – gridava girando per le strade del paese con in mano un corto bastone, quasi a mo’ di scettro.
Senza interruzione, dal rientro in patria fino alla morte, avvenuta nel 1967, scolpì più di tremila teste che “coltivava” come fossero frutti della terra al pari delle olive e degli ortaggi.
Tremila teste dall’espressione una diversa dall’altra: c’era il volto arcigno e severo, quello inquietante, quello dolce e sereno. Tra i volti a lui familiari, che chiamava per nome e con i quali parlava per ore e ore, vi erano anche – diceva lui – re, papi, imperatori, c’era Benito Mussolini e non poteva mancare Adolfo Hitler.
Tra tante teste, nessuna Filippo chiamò mai Marzia.
– Mi rispondono – dice ai curiosi e visitatori, sempre più numerosi – mi parlano, non sentite le voci? Questo è un giardino incantato. Quella testa in alto, a destra, è quella di Tony Alliata, mio grande amico. Sentite come parla bene? Sentite che dice?:
– Nella testa c’è l’intelligenza e l’intelligenza è ciò che distingue l’uomo dagli animali, l’intelligenza è l’unica forma di godimento che nessuna altra persona o cosa possono dare. L’intelligenza soltanto può dare tutto.
E Filippo: – Sì, Tony, è proprio vero! Per questo voglio vivere in mezzo a tante teste, io voglio vivere in mezzo a tante intelligenze!
La voce di Tony pare risuonare, per incanto, nel giardino: – L’intelligenza, però, è anche una trappola e tu lo sai… Filippo... o... o... o… anche l’intelligenza, prima o poi, muore!
L’eco ripete: muore… uore… ore… r... e… e... e.
– No, replica Filippo, io non muoio… vedi che scavo… e scavo... nel cuore della Madre Terra voglio tornare e là mai, mai, mai morirò!
Giuseppina Rando
Tratto da Nel segno, Pungitopo, Marina di Patti (Me), 2010 – Premio letterario “Città di Offida - Joyce Lussu” 2011 (Sesta edizione)