Coloro che amano Ferrara, che in essa vivono, o sono stati – almeno una volta nella vita – visitatori non superficiali o disattenti di questa città “radiosa e magnetica”; hanno attinto a piene mani alle sorgenti della sua bellezza; ne hanno ammirato la struttura urbanistica di “prima città del Rinascimento”; sono rimasti abbagliati da quella luce che taglia il diamante – palazzo dei Diamanti e la Cattedrale ne sono l’emblema –; oppure, avvolti nelle nebbie autunnali hanno sperimentato un’atmosfera magica e diversa: ebbene, tutti noi – ché mi ci metto anch’io – ci sentiamo orgogliosi di queste esperienze, che costituiscono un tratto distintivo, una forma d’essere prima che di vivere. Le sensazioni visive, olfattive, che catturano i sensi e rimandano ad universi immaginifici, quantunque costituiscano un’esperienza unica, sembrano tuttavia essere generate all’interno di un caleidoscopio e quello che, in un primo tempo pareva favoriva un percorso facilitato, può diventare – paradossalmente – un ostacolo. Come direbbe Italo Calvino, «per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti. Occorre per prima cosa scartare tutto ciò che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che continuano a ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere. Poi occorre saper semplificare, ridurre all’essenziale l’enorme numero di elementi che ad ogni secondo la città mette sotto gli occhi di chi la guarda e collegare i frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario».
“Sgombrare il campo visivo”, “ridurre all’essenziale”: sono verbi che decliniamo nell’ambito della percezione ottica: ma quando si tratta di “collegare i frammenti sparsi in un disegno unitario” sorge spontaneo il sospetto che dall’estetica (kantianamente intesa) si passi ad una cifra esistenziale: dalla stanchezza delle ombre che si allungano in «un tardo pomeriggio ontologico» come direbbe George Steiner, alla tensione verso «un colpo d’ala che vinca le sue resistenze ancestrali che la relegano verso i livelli infimi delle statistiche». Più che elementi di una ricomposizione gestaltica, sono “frammenti di un discorso amoroso”, citando un celebre testo di Roland Barthes degli anni ’70.
Tutto questo pensavo in occasione dei 91 anni di Carlo Bassi che cadono tra alcuni giorni. Carlo non ha certamente bisogno delle mie parole per essere celebrato in questa fausta ricorrenza né “scoperto” per qualche cosa che non sia nota: vive e lavora a Milano pensando a Ferrara, ha detto di se stesso. Questo amore di loco natìo sostanzia molte delle riflessioni che Carlo Bassi, architetto come Biagio Rossetti, ci dona costantemente. Sollecitato – per sua ammissione – da Claudio Magris nel suo Microcosmi ecco Jorge Luis Borges: quel paziente labirinto di linee con cui l’uomo si propone il compito di disegnare il mondo traccia l’immagine del suo volto. Grazie, Carlo!
Andrea Nascimbeni