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Gianfranco Cordì. «Più montagne vedo e più forte vado» 
Storia di Pasquale Brancatisano, partigiano
03 Settembre 2014
 

Pasquale Brancatisano, nato a Samo di Calabria. Un signore anziano ma ancora arzillo e vivace, soprattutto, partigiano durante i duri anni che vanno dal 1943 al 1945. Partigiano durante la Resistenza del Paese contro il potere nazi-fascista e durante una delle fasi più drammatiche e convulse (l’Italia in quel periodo era giunta ad avere ben cinque governi diversi all’interno del proprio territorio).

Incontro Pasquale Brancatisano in un’assolata giornata di fine agosto di questo 2014. Lo trovo vigile, concentrato e sempre estremamente sicuro delle sue idee e delle convinzioni che lo hanno guidato 70 anni fa ad abbracciare la lotta armata contro i nemici della democrazia e della libertà. Gli porgo la mia prima domanda.

 

– Come è iniziata la sua storia di partigiano?

Io sono stato un soldato. Dal 7 gennaio del 1941, avevo 20 anni, mi sono trovato ad essere di leva. Fino ai primi di novembre del 1941 ci hanno portati a Vibo Valentia. In questa città fu formato un battaglione di complemento. L’obiettivo militare verso il quale era indirizzata la formazione di quel battaglione era la Jugoslavia, terra in quel momento occupata da italiani e tedeschi. Giorno 4 novembre ci siamo quindi imbarcati per Bari. La direzione era sempre la Jugoslavia. Infine siamo arrivati a Durazzo. Lì siamo rimasti fermi per mezza giornata. Al termine di quella lunga attesa è arrivato l’ordine che si riferiva al nostro imbarco per la Jugoslavia. Siamo così arrivati nel Montenegro. In quel posto ho camminato per 4 giorni a piedi assieme a tutti i miei commilitoni. Giungemmo così in un posto di riserva che raccoglieva i soldati dei vari battaglioni. Lì sono iniziati i combattimenti. Più tardi ci siamo spostati verso Nisic sempre nel Montenegro. A quel punto ci hanno destinati al nostro reggimento. Il mio era il 207 “Fanteria”. Io allora finii nella 10ª Compagnia. Per ben tre mesi fummo circondati dai partigiani slavi. trascorsi tutto quel periodo senza notizie dei miei familiari e senza viveri da casa. Gli Alpini ci liberarono solamente gli ultimi giorni di febbraio. Nella primavera del 1942 abbiamo però rastrellato completamente il Montenegro. Il 4 agosto ci siamo imbarcati per l’Italia. E il giorno dopo, il 5 agosto, di nuovo siamo giunti a Bari. Di seguito sono stato per 15 mesi ad Alessandria, in Piemonte. Nottetempo è arrivato allora l’ordine di rientrare in Francia. In Costa Azzurra faceva molto più caldo che qua. Alla fine rimasi “sbandato” in Francia fino all’8 settembre del 1943. Di fronte a due mitragliatrici puntate contro di me sono riuscito a scappare dalla mano tedesca. Me la sono filata nel bosco. Ho retrocesso; sono andato sempre più indietro nel bosco con 30 kg di armamento sulle spalle ed il tutto a costo della vita. Alla fine del bosco c’era una casa molto vecchia che era abitata da una donna la quale aveva anche due bambini. La donna si è rivolta a me in italiano: “Noi siamo di Gaeta”. Io le avevo parlato all’inizio in francese. La donna a i suoi figli erano in quel posto da oltre un mese. I Tedeschi li avevano portati lì a bordo di un treno perché il posto dal quale venivano era distante 200 km lungo la linea francese. Un altro particolare agghiacciante di quella spedizione era costituito dal fatto che non appena la tradotta fu partita i tedeschi stessi l’avevano mitragliata a lungo. Sono rimasto in casa con la donna fino a quando è arrivato il marito che giunse in compagnia di un'altra figlia. Quella donna mi ha completamente rifornito di vestiti. Alla sera in quella casa tutti noi abbiamo ballato e cantato; eravamo felici di essere sfuggiti ai tedeschi. Io ho mangiato e fino a mezzanotte siamo stati in quella casa. A 100 metri c’era un viottolo: mi sono vestito da borghese – come erano vestiti da borghesi tutti gli inquilini di quella abitazione. Quei signori mi hanno dato una bottiglia di vino, un cappotto e una coperta. Ho cominciato così il mio attraversamento lungo le montagne.

 

– In questa sua storia di partigiano si intreccia anche quella più strettamente privata di poeta. Quando è che lei, nel corso delle sue vicissitudini, si è avvicinato alla letteratura e alla scrittura?

Io sono nato a Samo il 20 dicembre del 1921. Ho potuto frequentare solo le prime classi della scuola elementare. Non avevo, quando scoppiò la guerra, un’istruzione adeguata. Tuttavia quella coppia di rifugiati mi regalò persino un vocabolario che faceva anche da antologia e da atlante. Ho cominciato cosi a passare il mio tempo consultando quel libro. La mattinata successiva a quando lasciai l’abitazione di quei due, incontrai un siciliano. Ricordo che mentre io ero di fanteria lui era di artiglieria. Gli ho ceduto un paio di pantaloni ed il cappotto. Questa persona mi chiese se ce l’avessi fatta a scappare ancora di più e più lontano. «Più montagne vedo e più forte vado» gli dissi io. In realtà alla fine abbiamo camminato molto e molto a lungo in quei giorni. Alla fine giungemmo su di un’alta collina. Volevamo entrambi arrivare al paese di Ieres. Lì stava un campo di concentramento con ben 3.000 italiani. Incontrai allora un uomo che proveniva da Cuneo ed era completamente sordo. Costui mi ha intimato di non proseguire più oltre perché davanti a noi c’erano i tedeschi. Anche un altro uomo che stava portando della legna mi confermò la stessa cosa. Non si poteva a quel punto più andare avanti. Dunque siamo rimasti – io e il siciliano – per otto giorni in quel bosco. C’erano circa 12.000 fuoriusciti francesi – a causa del fascismo – ed erano tutti sparsi in ogni dove. La sera comunque arrivavamo a racimolare una porzione di cibo e riuscivamo così a cenare. Per altri otto giorni siamo stati condotti in una ampia vallata al centro della quale stava una capanna. Dopo l’oscurità che giunse all’ottavo giorno ci fu detto allegramente che i tedeschi se ne erano andati. Infatti era in quel momento avvenuto il cosiddetto “Sbarco in Normandia”. Siamo quindi stati altri sette giorni in quelle terre. Però abbiamo iniziato a camminare a quel punto verso l’Italia. Abbiamo attraversato le Alpi. Ci sono voluti tre giorni durante i quali abbiamo dovuto attraversare boschi fitti e pieni di pericoli. Abbiamo così raggiunto il primo paese italiano: Migliens. Sono a quel punto finito a Sant’Anna: ricordo di aver percorso una strada molto particolare: tutta fatta di rocce. Ho lavorato in quel periodo in una cascina.

 

– E fu lì che avvenne il suo incontro con i partigiani?

Infatti. Sì. Quando lavoravo in quella casina conobbi per la prima volta i partigiani italiani. Era solo, in quale caso, una formazione isolata. Decisi senza nemmeno chiedermelo di unirmi a loro. Domandai al figlio di un partigiano di quella formazione di farmi interloquire con suo padre. In quel paese, io sapevo, esisteva proprio il comando dei partigiani. Mi ci hanno condotto su di un carrozzino e, guidato da loro, ho attraversato una strada segreta. Alla sera sono arrivato nel posto in cui c’era il comando dei partigiani e il padre di quel ragazzo. Entrai così nella 16ª “Brigata D’Assalto Garibaldi”, che, più tardi – nel 1944 – confluì nella 99ª “Brigata”.

 

– Quali furono le motivazioni che l’hanno spinta alla scelta della lotta armata? E quale fu il clima e l’ambiente che trovò all’interno delle brigate partigiane?

L’Italia era completamente distrutta. Le formazioni partigiane erano nate per questo motivo. Il nostro pensiero era quello di combattere il Fascismo in tutte le sue forme. E il nostro pensiero era sempre quello di sterminare la dittatura. Col 25 aprile siamo riusciti a pacificare il paese: abbiamo portato finalmente la pace in Italia. La nostra idea era: la libertà. Far finalmente vedere e rendere noto al mondo che l’Italia poteva risorgere con dei nuovi valori. L’uomo deve essere libero: questo mi ripetevo nella mente durante quei giorni così decisivi ed importanti. Noi abbiamo il dovere morale di portare in Italia i diritti: diritto alla pensione, diritto al lavoro, diritto alla sanità, ospedali, aborto…

 

– Come si viveva insieme con gli altri partigiani?

Fra di noi c’era una vera e propria fratellanza di cuore. Si mangiava e si beveva tutti insieme. Le cose si decidevano solo in virtù del ragionamento. Si viveva come fratelli. Eravamo tutti liberi. Il comando c’era, ma era solo una faccenda formale: si viveva di comune accordo e per comune sentire. Il nome di battaglia che io scelsi per me era “Malerba”.

 

– Alla luce di tutto quello che è avvenuto in Italia dopo la “Liberazione” e nella sua stessa vita privata di cittadino italiano, come giudica oggi quell’esperienza?

Oggi mi rendo conto, dopo tante vicissitudini mie private ma anche pubbliche, che quell’esperienza mi fu assai utile ed istruttiva. Da una parte si combatteva per un ideale e dall’altra ho avuto modo anche di studiare, di scrivere delle poesie e di conoscere finalmente la cultura. Ricordo che al momento della liberazione ci siamo diretti dalle Langhe a Moncalieri. Anche a Torino c’erano diverse brigate partigiane. In 100.000 siamo sfilati per le strade di Torino. La gente urlava al nostro indirizzo: Viva i partigiani, viva la libertà. Era la prima domenica di maggio. La guerra era finita e le persone applaudivano. Tutto quello che noi avevamo fatto era valso a qualcosa. Un'eco, una parola soprattutto mi giunge anche oggi alle orecchie se ripenso a tutta la mia esperienza di partigiano ed al mio percorso di uomo: “Viva la libertà”. Ecco, appunto: la libertà!

 

Gianfranco Cordì


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