Dalla lettura delle opere di Edith Stein emergono chiare le tracce del percorso di una ricerca interiore non facile e la dimensione di una personalità semplice e al tempo stesso complessa; una personalità che richiama la figura dell’homo viator, o di chi è impegnato in un viaggio verso una meta illuminante o verso quella conoscenza che dà accesso alla verità.
Desiderosa di approfondire gli studi e di andare sempre “oltre”, assetata di conoscenza e di verità, la giovane Stein, completati gli studi liceali, s’iscrisse alla facoltà di Lettere della sua città, Breslavia. Nel piano di studi di allora, oltre a Germanistica e Storia, era incluso lo studio di Psicologia sperimentale e Filosofia. Erano queste le materie interessanti per lei, affascinata dall’io e dai problemi dell’interiorità.
Vivevo completamente assorta nei miei studi e nelle aspirazioni alle quali essi mi avevano condotta... L’impegno costante di tutte le mie forze suscitò in me il sentimento di una vita elevata che mi rendeva felice: mi pareva di essere una creatura ricca e privilegiata... quasi non mi accorgevo di quanto mi fossi allontanata dai miei e di quanto loro ne soffrissero.1
Gli studi presso l’Università di Breslavia non però riuscirono a soddisfare le sue esigenze, il suo spirito avrebbe voluto “altro”, come si legge nella sua autobiografia: Studiando psicologia, s’imbatté più volte nel nome del filosofo Edmund Husserl e nel suo nuovo metodo fenomenologico. La fenomenologia la incuriosì soprattutto perché concepisce ed esercita la filosofia come analisi della coscienza nella sua intenzionalità. E poiché la coscienza è intenzionalità, è sempre coscienza di qualcosa, l’analisi di essa è l’analisi di tutti i modi possibili in cui qualcosa può essere dato alla coscienza (come percepito, pensato, ricordato, simboleggiato, amato, voluto e così via).
Durante il mio quarto semestre, ebbi l’impressione che Breslavia non avesse più nulla da offrirmi e di aver bisogno di nuovo stimoli. [...] Non conoscevo nessuno che potesse consigliarmi. Perciò cercai da sola la mia strada con fiduciosa sicurezza.2
Edith intuì che l’approfondimento di questa parte della filosofia l’avrebbe portata all’introspezione e a leggere all’interno delle cose.
Dopo che uno dei suoi compagni di corso, Moskiewic, le diede la possibilità di leggere il secondo volume delle Ricerche logiche di Husserl, Edith non pensò ad altro che andare a Gottinga per seguire le lezioni di colui che lei, nella sua autobiografia, chiama il filosofo del nostro tempo.
Avevo 21 anni ed ero in attesa di ciò che sarebbe accaduto. La psicologia mi aveva deluso, mentre tutti i miei studi mi avevano portata a questa convinzione: la scienza era rimasta allo stadio infantile, in mancanza della necessaria chiarezza di fondamenti oggettivi che non era in grado di elaborare da sola. In compenso il poco che avevo appreso fino a quel momento sulla fenomenologia mi stregava, proprio in virtù di quel lavoro di chiarificazione che è esattamente alla base della sua specifica consistenza e in cui viene forgiata al primo colpo l’armatura di cui si ha bisogno: i propri strumenti di pensiero.3
Non fu difficile per Edith inserirsi nell’ambiente universitario: conobbe subito il professor Reinach, assistente di Husserl e responsabile dei corsi, che aveva l’incarico appunto di accogliere i nuovi studenti. Di lui così scrive: Non mi era mai capitato di sentirmi accolta da qualcuno con una simile bontà così cordiale e così espansiva.4
Il primo contatto con Husserl fu incoraggiante. In seguito il maestro diede agli studenti la possibilità di andarlo a trovare per esporgli domande e dubbi. Edith arrivava sempre per prima, così aveva più tempo per discutere con il professore, anche se le loro convinzioni non sempre coincidevano.
Su invito di Moskiewic, Edith frequentò la Società filosofica, dove conobbe importanti nomi della filosofia tedesca del tempo: oltre Reinach, i coniugi Hedwig Martius e Theodor Conrad, Hans Lipps e altri. Acquistò anche familiarità con il pensiero di un altro maestro della fenomenologia, Max Scheler.
I giovani della Società filosofica avevano stabilito di approfondire, nei loro incontri, il pensiero di Scheler, partendo dalla sua opera Il formalismo etico e l’etica materiale dei valori.
Edith così descrive Scheler: Era estremamente seducente e sembrava un genio. Penso di non aver mai, in nessun altro, sfiorato così da vicino il fenomeno della genialità. Il suo viso era bello e i suoi grandi occhi azzurri sembravano riflettere lo splendore di un mondo superiore.5
Di lui, però, Edith ammirava soprattutto l’eloquenza e il rigore del pensiero.
Riconoscerà più tardi che Scheler, convertito dalla religione ebraica al cattolicesimo, le aveva già, fin da allora, fatto intravedere il mondo della fede. In realtà Scheler ha influenzato, con i suoi ideali e il suo calore umano, non pochi membri della scuola filosofica di Gottinga Si ricordano Von Hildebrand, che si convertì al cattolicesimo ed entrò nel Terz’Ordine francescano, e i coniugi Reinach, anche loro convertiti al cristianesimo.
Da qualche tempo i rapporti tra Scheler e Husserl non erano del tutto sereni, perché entrambi vantavano il primato del metodo fenomenologico; ma la rivalità, forse, era più tra gli studenti, divisi a contrapporre il pensiero dell’uno a quello dell’altro.
Edith si tenne fuori della disputa: riteneva che i due filosofi fossero troppo diversi per poter stabilire un confronto e voleva mantenere la sua libertà intellettuale.
Se Scheler l’aveva attratta con argomenti che non si possono affrontare soltanto sul piano della ragione (come l’amore, l’umiltà, il pentimento), di Husserl la affascinava certamente – oltre il metodo fenomenologico (la ragione che indaga dà all’intelletto la capacità di separare l’esterno dall’interno, in altre parole, di giudicare con criterio oggettivo) – un principio fondamentale: Bisogna andare alle cose e domandare loro quello che esse dicono ottenendo così delle certezze che non risultano affatto da teorie preconcette, da opinioni ricevute e non verificate.6
Il metodo fenomenologico appreso da Husserl rimarrà per la Stein una costante nella sua indagine filosofica, che applicherà in un primo momento all’individuazione di ciò che caratterizza il riconoscimento degli esseri umani, il sentire immediato che è un alter-ego e viene indicato con il termine Einfuhlung, empatia.
Proprio l’analisi di questo sentire rimanda alla dimensione psichica e spirituale dell’essere umano e apre quindi alla Stein la possibilità di descriverla nella sua tesi di laurea, pubblicata con il titolo Zum problem der Einfuhlung (Il problema dell’empatia). Nella sua ricerca, la Stein ripercorre in modo personale le linee tracciate da Husserl fino a proseguire in modo del tutto autonomo nella sua indagine. Così scrive: ... L’impostazione del problema e il metodo del mio lavoro sono venuti del tutto maturando attraverso gli stimoli che ho ricevuto da Sig. Prof. Husserl, per cui è strettamente discutibile ciò che, nelle trattazioni che seguono, io possa rivendicare come mia “proprietà spirituale”. Posso, però dire che i risultati, che ora presento, sono stati conseguiti col mio lavoro.7 Ciò che della fenomenologia affascinava Edith era quel voler penetrare in profondità delle cose per scrutarne l’essenza, lontano da ogni superficialità. In un suo articolo, pubblicato il 15 maggio 1924, lei stessa definisce la fenomenologia oggettiva essenzialità, non semplice apparenza.8
Per la Stein, la scuola fenomenologica di Husserl portava un’innovazione al pensiero filosofico. Occorreva infatti mettere da parte ogni pregiudizio o preconcetto per andare alla natura intima delle cose, alla loro purità naturale, e tutto ciò con il rigore che deve tralasciare ogni sentimento per agire nella verità e nell’onestà. Sono proprio l’onestà intellettuale e il bisogno di chiarezza che spingono la giovane studentessa a porsi i tanti interrogativi sui fenomeni e sull’io che quei fenomeni sono chiamati ad analizzare.
Sia Husserl che la Stein hanno raggiunto alla fine gli stessi risultati, pur seguendo vie diverse che poi sono quelle che segnano la differenza.
Nella Introduzione per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Husserl dà la definizione di fenomenologia come scienza che permette la trattazione delle essenze e sostiene che la conoscenza essenziale è legittima, contro il naturalismo e lo psicologismo di origine positivistica.
Egli sostiene di non aver usato il termine idea perché può essere equivoco e di preferire la parola tedesca wesen (carattere) o quella greca (per lui straniera) eidos (forse il maestro si è reso conto di non possedere un vocabolo idoneo per indicare un nuovo modo di dire, ma nel rispetto della tradizione non vuole inventare vocaboli nuovi). Proprio il termine wesen o eidos costituisce il momento di unione e nello stesso tempo di distacco tra la fenomenologia di Husserl, che mette tra parentesi la tesi dell’esistenza del mondo (epoche), e quella della Stein, chiaramente realistica (esamina il soggetto nel suo concreto rapporto con la realtà). Husserl sostiene che la radicalità dell’atteggiamento critico non può giungere alla negazione della tesi del mondo, può solo metterla tra parentesi, ben consapevoli che anche tra parentesi continua a sussistere. È il soggetto che viene implicato, e l’attività del soggetto è sempre la risposta a una richiesta, a un appello. Il momento soggettivo e quello oggettivo divengono in tal modo inscindibili.
La Stein ha piena consapevolezza che la filosofia da sola non può rispondere a tutti gli interrogativi che ella si pone, a tutte le sue richieste, perché rimane frammentaria e comporta il rischio di tutti gli errori, di tutte le svolte e di tutte le deformazioni a cui ha finito per soccombere la mente umana, malgrado gli sforzi.9
Avverte tutto il limite e la povertà dell’intelligenza; infatti scriverà: Imbattendoci in sfere di valori che ci sono preclusi, prendiamo coscienza della nostra deficienza personale e del nostro disvalore.10
Così la Stein non ripudia la sua formazione fenomenologica, anzi la utilizza per una ricerca più ampia di quella che, a suo avviso, ha compiuto Husserl: affronta la questione metafisica che il maestro non aveva tematizzato, interessato soltanto a perfezionare il suo metodo. Nemmeno nella sua opera fondamentale Essere finito e Essere eterno si distacca del tutto dal maestro, ma opera delle distinzioni. La Stein dice di avere individuato l’essenza dell’essenza, che consiste non solo nell’essere essenziale, ma anche nell’essere attuale-reale nei suoi soggetti; l’essenza in fondo ha una posizione di mezzo tra l’essenzialità o essere essenziale e il mondo attuale-reale.11
Secondo la Stein, Husserl non riconosce il legame con il mondo attuale-reale, mentre lei sostiene che la ricerca sull’essere non può ridursi a una pura ricerca di significato perché si rimarrebbe sul piano gnoseologico. Qui si trova il contatto e nello stesso tempo la distinzione tra Husserl e la Stein, per la quale le essenze hanno un’esistenza.
Con queste premesse affronta lo studio dell’empatia (Einfühlung).12
Si legge nella sua autobiografia: Tuttavia questo studio a cui si dedica notte e giorno non dà alla sua mente la luce che cerca, brancola sempre nel buio. Ciò la porta a una crisi depressiva. È Reinach che l’aiuta, offrendole la sua preziosa amicizia, è lui che la incoraggia a proseguire gli studi. I due non sono uniti solo da una sincera amicizia, ma anche dal comune interrogativo sul senso delle cose. Reinach e Scheler influiscono profondamente sulla sua ricerca perché non solo le danno dei suggerimenti rispetto ai diversi ambiti del sapere, ma la orientano sempre di più verso la riduzione all’essenza che rimane il filo conduttore.
Nel suo seminario sulla natura e lo spirito, Husserl aveva parlato del fatto che un mondo esterno oggettivo poteva essere conosciuto solo in modo intersoggettivo, cioè da una maggioranza di individui conoscenti che si trovino tra loro in scambio conoscitivo reciproco. ... Husserl chiamava Einfühlung (intuizione) questa esperienza, ma non dichiarava in che cosa consistesse. C’era perciò una lacuna che andava colmata: io volevo ricercare che cosa fosse l’intuizione.13
Tuttavia un gran passo avanti è stato fatto: studiando l’empatia, Edith affronta il problema della persona umana aperta verso l’alterità, l’altro. Nella sua complessa ricerca filosofica sulla costituzione dell’essere umano parte quindi dall’analisi fenomenologica descrittiva delle dimensioni fondamentali di cui l’essere umano è costituito (corpo, psiche e gli atti a essi corrispondenti) e approda all’interiorità il cui centro è l’io. L’io che si pone in rapporto all’altro.
L’altro, che è un alter-ego, non è afferrabile con atti mentali, bensì con stati emozionali, è un sentire permeato d’intenzionalità, che favorisce il trascendimento di me e si apre all’altro così che possa cogliere i suoi vissuti.
L’altro, di cui si coglie la differenza con l’io, è il diverso da me; c’è tra l’io e il tu solo una “condivisione” del suo dolore e del suo gioire, in altri termini del suo vivere; un legame, spiega la Stein, che non s’identifica mai, né può rendere sostituibile l’io al tu.
L’empatia è l’esperienza di come questa importantissima differenza non sia abolita, ma trovi una singolare profondità ontologica proprio portando alla luce la dimensione dell’alterità, comune a me e all’altro.
Man mano che chiarisce le sue idee e le mette per iscritto (Il problema dell’empatia era argomento della sua tesi di laurea), la Stein comprende di aver preso le distanze dal suo relatore Edmund Husserl, di dissentire da lui perché i loro pensieri divergono.
La sua mente libera, critica anche la teoria dell’Einfühlung di Theodor Lipps, uno degli esponenti più tipici dell’idealismo tedesco, il quale considerava l’empatia come immedesimazione e identificazione di due soggetti. Anche Scheler pensa sia possibile immedesimarsi nell’altro fino in fondo.
Qui bisogna fare attenzione: il termine “immedesimazione” può avere anche una doppia valenza: capire che l’altro ha una gioia indubbiamente può anche significare, in una certa misura, una mia immedesimazione nell’altro, perché in quel momento io posso essere triste, ma nonostante tutto posso capire che l’altro ha gioia. Ma vivere la stessa gioia con la stessa intensità è possibile soltanto, come dice Scheler, se si vive in un flusso unitario, mentre il flusso unitario è assolutamente escluso sia da Husserl che dalla Stein.
Ogni soggetto umano si mostra con una sua autonomia, quindi i vissuti sono comuni dal punto di vista strutturale – nel senso che tutti percepiamo, tutti possiamo provare empatia, tutti possiamo avere una vita affettiva con caratteristiche generali –, ma i contenuti che di volta in volta si presentano in questi atti sono assolutamente soggettivi, personali o legati a particolari circostanze. In un determinato momento tutti possiamo avere in comune una visione percettiva di alcuni oggetti, però il contenuto della percezione o la vita affettiva che accompagna questa percezione è assolutamente peculiare e personale; il che significa che gli esseri umani hanno degli elementi in comune, ma anche una profonda diversità e autonomia. Se si identifica l’io con il tu, sostiene giustamente la Stein, si nega implicitamente la libertà del soggetto e la differenza sostanziale tra il dolore dell’altro e ciò che io provo di fronte a chi soffre.
Solo sulla base dell’alterità che lega i due soggetti l’uno può condividere la gioia o il dolore dell’altro. E lei stessa afferma che l’empatia è un rendersi conto di ciò che accade all’altro e conclude (come mettono in risalto due studiose del problema dell’empatia):14 quel che interessa non è perché o come accada questo, ma proprio che cosa è, alla radice, cioè ontologicamente, questo rendersi conto.
Sarà il grande tema dell’individualità che poi la Stein continuerà a coltivare fino alla fine della sua vita, nell’ultima parte, per esempio, di Essere finito e Essere eterno, quando si pone la domanda: come riesco a cogliere ciò che è individuale? Risposta: ciò che è individuale si coglie proprio attraverso il sentire, ma il sentire nel senso che io riesco a capire che l’altro è simile a me, pur nella comunanza di un rapporto reciproco.
Secondo le autrici del saggio citato, l’itinerario della Stein resta in ogni caso e, suo malgrado, incompiuto. Molte domande nel suo pensiero restano aperte. Si può, con certezza, dire che quel “rendersi conto” quel sentire è l’esperienza dell’alterità dentro di noi stessi che ci dispone ad accogliere l’altro, è amore per l’altro, che rende possibile l’incontro “da persona a persona”.
Giuseppina Rando
1 Edith Stein, Storia di una famiglia ebrea. Lineamenti autobiografici e anni giovanili, Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 196.
2 Op. cit., p. 147.
3 Op. cit., p. 150.
4 Op. cit., p. 173.
5 Op. cit., p. 182.
6 Antonio Maria Sicari, Ritratti di santi, Jaca Book, Milano 1992, p. 158.
7 Edith Stein, Il problema dell’empatia, trad. di Erika ed Elio Costantini, Edizioni Studium, Roma 1985, p. 66.
8 Edith Stein, Che cos’è la fenomenologia in La ricerca della verità. Dalla fenomenologia alla ricerca cristiana, a cura di Angela Ales Bello, Città Nuova Editrice, Roma 1993, p. 57.
9 Edith Stein, Essere finito ed Essere eterno, Città Nuova Editrice, Roma 1992, p. 17.
10 Edith Stein, Il problema dell’empatia, op. cit., p. 130.
11 Edith Stein, Essere finito ed Essere eterno, op. cit., p. 122.
12 Non si è trovato un termine italiano adeguato che spieghi il significato di quello tedesco. Alcuni studiosi parlano di “empatia” altri di “intuizione” (come nella traduzione dell’autobiografia di Edith), altri ancora di “condivisione” o “sentire con”. Si ritiene, in ogni modo, che gli ultimi due termini siano più vicini alla visione della Stein. In tal caso possiamo tradurre il termine Einfühlung con “un sentire immedesimato” sorto per intuizione e derivato da un’attrazione personale.
13 Edith Stein, Storia di una famiglia ebrea, op. cit., p. 246.
14 Laura Boella - Annarosa Buttarelli, Per amore di altro. L’empatia a partire da Edith Stein, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000.
[“Empatia” è tratto da: Le belle parole, Scrittura Creativa Edizioni, Borgomanero (No), 2013]