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Enrico Marco Cipollini. René Descartes (Cartesio)
30 Agosto 2014
 

René Descartes (italianizzato Cartesio) nasce nel 1596 a La Haye da famiglia di recente nobiltà. La sua educazione viene affidata al collegio di La Flèche, sotto la guida dei Gesuiti. A diciotto anni segue corsi universitari presso Poitiers ma quattro anni più tardi, si arruola nell'esercito di Maurizio di Nassau per la libertà dell'Olanda. Più tardi arruolatosi come «ausiliario volontario» nell'esercito dell'elettore di Baviera, avrà molto tempo libero per dedicarsi agli studi venendo anche a contatto con il famoso studioso di idrostatica e meccanica, Isaac Beeckman. Tornato in Francia, Cartesio partecipò alle dispute scientifiche e filosofiche con i dotti del tempo tra i quali padre Marin Mersenne, l'uomo della cultura enciclopedica e traduttore, tra l'altro, di alcuni libri del nostro Galilei in Francese. Il motto di Descartes era «bene vixit qui bene latuit» (che riprende il lathe biosas epicureo) ma ciò non gli impedì di aver contatti con gli eruditi del tempo ed è memorabile il suo epistolario con la regina Cristina di Svezia. Questa indusse il Nostro ad andare nella sua Terra affinché personalmente Le insegnasse la sua filosofia. Purtroppo la sua gracile salute non resse il clima glaciale scandinavo e morì nel 1650. Nel 1626 scrisse già un'opera metodologica Regulae ad directionem ingenii, che verrà pubblicata postuma. Invece nel 1633 la sua poliedrica mente aveva concepito Il trattato del mondo della luce ma, terrorizzato dalla condanna di Galileo, non lo fece pubblicare. Anche Descartes sosteneva, anzi fondava la sua dottrina sulla teoria copernicana. Solo nel 1637, come ho già accennato. Le stampe vedono il celeberrimo Discours de la méthode pour bien conduire sa raison et chercher la verité dans les sciences, che serve quale introduzione a tre dissertazioni scientifiche apparse nello stesso anno: La Dioptrique, les Météores et la Géométrie. Il suo Discorso sul Metodo si presenta come il manifesto della «nuova filosofia» ed infatti il movimento razionalista del 1600/1700 si ispirò al suo pensiero. Il Discours è condotto in modo autobiografico, quindi in parte è la sua storia del suo travaglio spirituale e dell'altra un'opera il sé stante, fondamentale nella filosofia moderna. Già nei suoi studi scolastici, Descartes, aveva manifestato la sua insoddisfazione di fronte all'aristotelismo e si sentì attratto dalla matematica «à cause della certitude et de l'evidence de leurs raisons».

La trattazione si rifà, anzi è suggestiva come quella dei «Saggi» di Montaigne. La pars destruens rappresenta la critica del sistema educativo usato nel collegio La Flèche. La critica non s'arresta lì, restrittivamente alla educazione impartita, ma s'allarga a tutta la tradizione retorica della cultura e al dogmatismo del pensare.

Così lo scopo – dice espressamente Cartesio – per la ricerca della verità non è quello d'insegnare il metodo che ciascuno deve seguire individualmente, ma di far vedere come egli stesso ha condotto la sua ragione, in quanto tutti gli uomini sono simili in quanto dotati di ragione. Quindi un buon metodo, come il suo, può aiutare anche gli altri; ciò implica comunque che ciascuno deve singolarmente cercare la verità entro di sé. La verità – prosegue Cartesio – non è già bella e fatta ma è sacrificio, opera individuale d'ogni uomo.

Cartesio continua la sua critica alla retorica imperante nella cultura, dicendo che «parlare con uomini d'altri tempi è simile a viaggiare, ma quando s'impiega troppo a viaggiare si finisce col diventare estranei al proprio paese e quando si è troppo curiosi di quel che si faceva nei secoli passati, si resta ignorantissimi di ciò che si fa presente».

 

(Discours, I partie)

 

Così nella prima parte del Discorso, Cartesio ci narra i suoi viaggi, la sua adolescenza, la sua giovinezza e le sue delusioni, poi, ci rivela il nuovo metodo per mezzo del quale giungere alla Verità. Sono quattro regole ricavate anche dall'osservazione geometrica, la qual scienza si basa su alcuni principi semplici, ma questo problema lo esamineremo più innanzi. Come per Bacone anche per Cartesio la scienza è destinata a rinnovare il mondo e a dominarlo attraverso la forza della ragione data dall'uomo. Prima di riformare il mondo, è necessario dare una «morale provvisoria» che permetta l'uomo di adattarsi alle abitudini e soggiacere al potere sia politico che religioso. Questa morale provvisoria non è altro che un espediente affinché l'uomo agisca comunque mentre si ricrea, si rinnova il mondo. La rivoluzione del sapere invece è inevitabile. A differenza di Bacone e similmente a Galilei, il Francese ricorre allo spirito matematico come forma di conoscere e questo «more geometrico» lo estende a tutti i campi dello scibile: la strabiliante novità del suo «Discours» è il mettere quale fondamento del conoscere lo spirito matematico, ovvero la sua oggettività.

Ma come dice il Geymonat, «sarebbe tuttavia erroneo supporre che Cartesio si sia limitato a ricavare il suo metodo dalla Matematica per applicarlo a tutte le scienze».1 Infatti Cartesio criticherà Euclide e proporrà una riforma radicale alla Matematica classica e riprendendo le parole del Geymonat, «Riforma che deve rendere la Matematica più permeabile alla ragione, più limpida nei suoi principi e nei suoi procedimenti, più perfettamente afferrabile dal nostro pensiero».2

Comunque è altrettanto indubbio che la Matematica e la sua Logica, sono le più alte manifestazioni della nostra intelligenza. E il «metodo» non è altro che il conoscere della ragione e del suo modo di operare. In nuce, il procedimento matematico ci addentra nell'intervento del nostro pensare da cui hanno origini le altre scienze e di qui il ribadire l'unità inscindibile tra i vari campi della ricerca scientifica con la Filosofia.

Descartes parte da concetti base quali posseggono in loro stessi la ragione della loro validità. L'intuizione e la deduzione sono funzioni della nostra mente. Così Cartesio nelle Regulae, «ex quibus omnibus colligitur... nullas vias hominibus patere ad cognitionem certam veritatem praeter evidentem intuitum et necessariam deductionem item etiam, quid sint naturae illae simplices de quibus in octava propositione. Atque perpiscuum est intuitum mentis tuum ad illas omnes extendi, tum ad necessiaras illarum inter se connexiones cognoscendas, tum denique al reliqua omnia quae intellectus praecise, vel in se ipso vel in phantasia esse experitur».

 

(Regulae, XII)

 

Ovvero che non risultano altre strade aperte agli uomini verso una conoscenza certa della verità se non l'intuizione si estende da una parte a tutte queste, alla conoscenza dei nessi indispensabili che hanno tra di loro, infine a tutte le cose di cui l'intelletto constata con precisione che sono in sé oppure nella fantasia e così ci spiega la deduzione come quell'operazione che dimostra una certa verità conseguente dell'altra di cui siamo sicuri.

Questi due processi, intuizione e deduzione, sono le operazioni proprie di ogni scienza. Ora Cartesio, riassume, nella sua pars costruens, le quattro regole già citate, per edificare la scienza. La prima è non accettare per certa una cosa, la quale non sia ben palesemente conosciuta. La seconda regola o dell'analisi, si basa sullo scomporre le idee complesse con un legame interno affinché si scopra con quali rapporti esse si connettono a cui segue la Sintesi o ricomporre le idee complesse con un legame interno di cui son composte mentre la quarta regola è quella della «enumerazione». Consiste nel fare enumerazioni così complete e generali affinché non si sia sicuri di non scordare nulla. Cioè una verifica continua fino ad riuscire ad avere un panorama completo di esse. Si deve notare che queste regole non sono apparentemente così divise, in pratica servono tutte e quattro la verità. Da tutte queste nasce l'evidenza. Ma quale «evidenza», ci viene spontaneo domandarci?

J. Lachelier3 propone di «abbandonare completamente il criterio cartesiano di evidenza», in quanto, sembra al Lachelier «che non c'è evidenza alla quale si possa attribuire un valore oggettivo».4 Invece, Cartesio, alla domanda quali sono le realtà evidenti, meditando giunge a giustificare metafisicamente la validità del meccanismo della natura e un essere superiore. Dubitare di tutto è il principio iniziale di Descartes. Non si tratta di un dubbio fine a se stesso e neppure di un dubbio scettico ma metodico. Cioè un veicolo per raggiungere la certezza. Il dubbio inizia da sensi che possono essere ingannevoli. Pensiamo alla teoria tolemaica che per secoli è stata accettata oppure all'illusorietà dei sogni, della fantasia. Ma tutto questo non può intaccare le scienze esatte. Per esempio: l'oggetto quadrato sarà fasullo ma non la «forma» del quadrato oppure uno più due conta sempre tre sia da sveglio che da addormentato, che ci sia o che non ci sia. Ma Cartesio va oltre. Anche la nostra mente potrebbe subire l'influsso di un genio maligno il quale impiega ogni sua abilità per ingannarci. È il famoso dubbio iperbolico (yperballein). Questo slancio, questo dubbio esagerato e coraggioso di mettere in dubbio ogni realtà, porta Descartes alla certezza: il famoso cogito ergo sum: «... Mais aussitôt après je pris garde que, pendant que,je voulais ainsi penser que tout était faux, il fallait nécessairement que moi qui le pensais fusse quelque chose; et remaquant que cette verité: je pense donc je suis, était si ferme et si assurée que toutes les plux extravagantes suppositions des sceptiques n'étaient pas capables de l'ébranler, je jugeai que je pouvais la recevoir sans scrupole pour le premier principe de la philosophie que je cherchais».

 

(Discours de la méthode, IV partie)

 

Il Cogito è l'aver coscienza di sé, la prima evidenza si è noi stessi (cogito e sum non sono inferenza logica pertanto). Inizia con l'identità di essere e pensare, la metafisica soggettivistica moderna e come rileva giustamente il Geymonat «Con essa si riconosce al pensiero una situazione assolutamente privilegiata quale “Sostanza” che non richiede nulla d'altro da sé, cui venire riferita o appoggiata. Il pensiero, così inteso, non risulta soltanto la prima verità, ma il punto di partenza di qualsiasi verità».5 Ed infatti dal “Cogito” Descartes passerà a Dio immediatamente: il suo ragionamento è facile. Esamina le idee che trova in sé e sa di avere nel suo «io». L'idea che lo rappresenta se stesso è una verità indiscutibile cioè l'Io Sono. Poi ha anche le idee di Dio, quelle di uomini, animali... E queste idee, escluso le idee di Dio e dell'«Io Sono», sono imperfette rispetto all’«Io sono» quindi tutte le idee come montagne, uomini etc., nascono da Lui. Pertanto anche l'idea di Dio potrebbe nascere dal soggetto. Quindi se Dio è un essere perfettissimo non può avere la sua origine che da un essere realmente esistente, quindi è facile dedurre da questo sillogismo che Dio esiste, muovendosi comunque dal cogito. Dalla necessità dell'Artefice dell'uomo, il quale uomo è imperfetto e quindi non può essersi dato l'esistenza da solo, quindi è indispensabile l'esistenza di Dio. Da tale prova passa alla terza prova «ontologica» che si basa sulle parole: perfezione, esistenza, essere, imperfezione. L'uomo avverte la sua imperfezione e quindi s'ammette anche la perfezione cioè Dio. Se Dio non avesse l'esistenza, sarebbe imperfetto ma siccome è perfetto, implica l'esistenza. E la Filosofia soggettivistica di Descartes non poteva arrivare ad altro ma il nostro va più in là. Dio, essendo perfetto, non può ingannare e quindi è garanzia di verità. Ma affiora un altro problema: il rapporto tra Iddio e il Mondo e la possibilità dell'errare umano. Infatti se la nostra mente è una emanazione di Dio e se la divinità è sempre verace, come si può errare?

Descartes risponde a questo problema dicendo che la “conoscenza” ha il concorso non solo dell'intelletto, ma anche della Volontà. L'intelletto è concezione delle idee (le divide in tre categorie: avventizie, fattizie, innate) le quali in sé non sono né vere né false ma la veracità o falsità è dovuta all'atto del giudicare e di scambiarle in vere e non. Siccome l'atto suddetto dipende dalla nostra volontà e questa – essendo libera – può condurre all'errare. Ma il problema irrisolto resta il rapporto tra sovra naturale e umano. Il Francese dissocia l'uomo in res cogitans (pensiero) e res extensa (corpo, natura). Nella parte fisiologica, l'uomo non si diversifica molto dagli animali (che lui chiama automi) ma nell'uomo c'è il pensiero quindi anche l'anima e tale è sempre congiunta all'uomo nella ghiandola pineale. Descartes afferma che proprio lì nasce l'insorgere delle passioni, dei sentimenti. Questo rapporto tra anima e corpo, tra soma e psiche, verrà dibattuto dalle filosofie post-cartesiane e risolto monisticamente da Spinoza. Resta di fatto che Cartesio toglie di torno nella sua ferrea razionalità ogni entità oscura che popola l’universo e paradossalmente il suo filosofare pone inizio alla biologia del sentire: sensibilità e forze vitali come ben gli riconoscerà il medico filosofo Cabanis (Rimando a tal proposito al mio, Analisi dei «Rapports» cabanisiani. Antropologia filosofica, Padova, 3ª ristampa, 2000).

 

Come abbiamo potuto vedere assieme, il pensiero cartesiano non pone gravi ostacoli teologici. La sua morale è caratteristica: all'inizio si pone una morale provvisoria di cui abbiamo già parlato, poi più innanzi, con l'affermazione che pone il far bene in funzione alla conoscenza vera, mostra come Descartes dia priorità all'intelletto sulla volontà.

Finalmente con Descartes abbiamo l'alternativa al vecchio aristotelismo. Abbiamo contestato che sfoceranno in campi diversi come solo il suo genio esigeva: matematica, fisica, geometria, biologia e medicina. Rimane fondamentale la lotta di Descartes contro il dispotismo culturale e questa battaglia la condusse con la ragione. Altro fattore di estrema importanza anche ai nostri giorni, il suo asserire l'unione delle Scienze con la Filosofia e lui lo dimostrò personalmente. Tesserne gli elogi sarebbe pura retorica, semplice elencazione come d'altra parte indicarne i limiti. L'importante è di aver colto nel pensiero cartesiano il frutto, l'aspirazione del suo tempo e riconoscergli di aver analizzato con chiara e perita razionalità, ogni ostacolo, ogni sapere precostituito e dogmatizzato. Aprì, come disse un suo biografo, l'età moderna, cioè colmando i duemila anni che vanno da Aristotele a Lui.

 

Enrico Marco Cipollini

 

 

 

1 L. Geymonat, Storia del Pensiero filosofico e scientifico, Milano, 1970-72, vol. II, p. 282.

2 Ibidem

3 J. Lachelier in Dizionario Critico di Filosofia, critica, ad vocemevidenza” nell'opera classica curata da André Lalande nel succitato Dizionario.

4 Ibidem

5 L. Geymonat, op. cit., p. 284.


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