La storia sembra essersi bloccata in un vicolo senza uscita, e le nuove generazioni non fanno domande. Un silenzio che non è un’assoluzione e forse nemmeno una condanna. E se qualcuno un giorno chiedesse conto a quelli che c’erano di come sono andate le cose? Ci sarebbe pronta una risposta o si volterebbe la faccia dall’altra parte? Ecco, in previsione della possibilità, per quanto remota, che un qualche discendente volesse sapere come fu che in pochi decenni un popolo intero rinnegasse tutto il passato per votarsi a un presente amorfo e senza futuro, c’è da chiedersi: siamo ancora quelli che eravamo o abbiamo già subìto mutazioni irreversibili? E per tentare una risposta, non resta che fare un passo indietro, pestando orme ancora fresche.
Favola breve
I nati negli anni ‘60 – o generazione sputnik – trovarono un mondo in piena rivoluzione. Sorgevano intorno alle grandi città agglomerati urbani alla rinfusa, affollati di emigranti interni che avevano lasciato il paesello e il campicello per raggiungere comunità di compaesani già inseriti nel nuovo contesto, pronti ad aiutarli nel trovare lavoro e a farsi casa.
In queste distese periferiche disseminate di casermoni e borgate in via di espansione, la gente viveva una stagione felice, ricca di prospettive.
Già lontani nel tempo la tragedia della guerra e i patimenti del dopoguerra, si ripartiva alla grande, spinti dalla società dei consumi in pieno svolgimento di programma.
In questo tipo di società, euforica e combattiva, i bambini nascevano belli e forti come mai si era visto prima, e ciò si spiegava con il benessere che presto dilagò in tutte le case, migliorando la qualità della vita.
Le generazioni precedenti avevano prodotto i figli della guerra, del lavoro massacrante senza regole, della miseria e dell’ignoranza, ma tutto ciò era ormai un capitolo chiuso. Il progresso tecnologico, spronato dal boom economico, va scrivendo un’altra storia.
Il soffio di una nuova mentalità – proveniente da lontano, ma che già vorticava anche dalle nostre parti – prendendo rapidamente forza e consistenza aprì a nuovi slanci, protesi a una diversa visione della vita.
I Figli dei fiori
Arrivano anche sulle nostre coste I Figli dei fiori, aderenti al Movimento Hippie sorto in California in opposizione alla guerra del Vietnam e propagatosi presto in tutto il mondo, che sul principio della Beat Generation – “allargare l’area della coscienza” – tentavano nuove esperienze nelle filosofie orientali, nei viaggi, nella musica e nelle droghe, soprattutto negli allucinogeni.
Capelli lunghi e barbe incolte, jeans sdruciti e attillatissimi e gonnelloni variopinti, praticano il “naturismo” e predicano il libero amore coprendosi di fiori, simbolo di pace. I loro motti più famosi: “Mettete dei fiori nei vostri cannoni”, “Fate l'amore, non la guerra”.
Anticonformisti, rifiutano ogni forma di istituzione autoritaria – dalla famiglia allo Stato – e proponendo un nuovo stile di vita totalmente “alternativo”, molto vanno ad influenzare il Movimento di protesta del ’68.
Il Festival Rock svoltosi a Woodstock dal 15 al 17 agosto 1969 (dopo che si era appena conquistata la luna, il 20 luglio) in cui si esibirono i maggiori esponenti della musica rock del tempo – fra cui Joan Baez, Jimy Hendrix, Carlos Santana – resta un evento mitico al quale parteciparono oltre mezzo milione di giovani di ogni nazionalità.
Ma quello che rimase sul prato dopo il raduno, fece capire che le droghe stavano facendo il loro effetto devastante, corrompendo ideali e aspirazioni.
Don Milani e l’obiezione di coscienza
La guerra del Vietnam fu determinante per i moti di quegli anni. La tenace resistenza del popolo vietnamita al colosso militare americano, stava a dimostrare che l’organizzazione politica poteva sconfiggere la potenza tecnologica.
Manifestazioni, assemblee studentesche nelle università occupate, raduni nelle fabbriche, roghi di bandiere americane, furono le tante forme di protesta contro questa guerra atroce, iniziata in realtà a metà degli anni ’50 con il primo manifestarsi di un’attività terroristica e di guerriglia in opposizione al governo sudvietnamita e il progressivo intervento americano.
Si fa strada una nuova forma di coscienza. Un “ampio ripensamento collettivo” stava maturando, coinvolgendo il mondo giovanile. S’intrecciano fermenti da luoghi anche culturalmente lontani, dal cattolicesimo post-conciliare ispirato alla Pacem in Terris (1963) all’Underground americano. I casi di obiezione di coscienza diventano sempre più frequenti, sempre più giovani si rifiutano d’indossare la divisa militare, sensibilizzati alla cultura della pace e della fratellanza universale.
A schierarsi apertamente a favore dell’obiezione di coscienza don Lorenzo Milani, autore con i suoi ragazzi di Barbiana del libro-manifesto Lettera a una professoressa, che nel ’66 scrisse: “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi son tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”.
Passarono quegli anni ’60 come una meteora, lasciando tutti abbagliati da un fenomeno di cui non si compresero la transitorietà e l’orientamento, e troppo presi nel vortice dei propri piccoli affari e dai personali stravolgimenti, si omise di registrare la violenza politica che sferzava l’Italia e si corse entusiasti alla velocità dei tempi.
L’“Autunno caldo” delle grandi lotte operaie, la strage di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969, cui fa seguito la morte di Giuseppe Pinelli mentre in questura veniva interrogato dal commissario Luigi Calabresi, è l’inizio della “strategia della tensione” che esploderà di lì a poco e farà emergere tutta l’energia compressa della contestazione giovanile, che si credeva limitata in ambiti definiti.
(prosegue)
Bignamino di una cronaca non ancora storicizzata – 1
(Tratto da Se tu mi chiedessi – storia e storie fra cronaca e memoria, UniversItalia 2013)