Le Marche, e Fabriano in particolare, tornano protagoniste di primo piano nel panorama italiano della cultura e delle grandi mostre con “Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura a Fabriano fra Due e Trecento” a cura di Vittorio Sgarbi. Un’iniziativa che mira a valorizzare uno smisurato patrimonio artistico in gran parte “sommerso” e inscindibile dal contesto paesaggistico e ambientale di straordinaria bellezza.
La mostra è ospitata presso la Pinacoteca Civica Bruno Molajoli e in tre splendide chiese (Chiesa di Sant’Agostino, Cappelle Giottesche; Chiesa di San Domenico; Cappella di Sant’Orsola e Sala Capitolare, Cattedrale di San Venanzio, Cappelle di san Lorenzo e della Santa Croce) fino al 30 novembre 2014 (Catalogo edito da Mandragola).
Uno scenario quasi segreto nel quale si iscrive un itinerario prezioso, occasione per ammirare pale d’altare, sculture lignee dipinte e affreschi della lunga stagione gotica.
Agevolata dalla sua stessa posizione geografica a ridosso dell’Umbria, posta su una delle vie di comunicazione più battute tra Roma e l’Adriatico, a poche ore da Assisi, Fabriano schiude precocemente le sue porte al pregnante messaggio figurativo che, allo scadere del XIII secolo, prende a irradiarsi dalle impareggiabili navate della Basilica francescana. Non è pertanto frutto di casualità che le prime testimonianze pittoriche esistenti nell’ambito della sfera territoriale fabrianese risultino legate alla cultura artistica circolare nell’attigua ed evoluta regione.
Proviene dall’Umbria, infatti, lo sconosciuto artefice dei grandi affreschi visibili nella Pinacoteca Comunale di Fabriano, risalenti agli anni conclusivi del Duecento. Mi riferisco al qualitativo autore della Crocifissione e delle Storie di S. Agostino dipinte in origine sulle pareti dell’ex-convento di Santa Maria Nova. Un esordio ad altissimo livello, ricco di riferimenti al clima estetico toscano, per i rapporti che l’autore aveva intessuto con le correnti espressive che facevano capo a Giunta Pisano.
Per fraseggio dei toni e suggestione sentimentale, spicca tra i soggetti superstiti del ciclo quello della Crocifissione, con la lunga sagoma falcata del Cristo quale fulcro ottico del tema sacro, con la Vergine e il Battista nel ruolo di dolenti contrappunti.
Un’altra sicura presenza umbra è quella di Rinaldo di Ranaccio da Spoleto, che firma la Croce sagomata custodita in Pinacoteca, originariamente dipinta per la Chiesa della Madonna del Buon Gesù. Di ben più autorevole censo di qualità si qualifica l’autore della bellissima Croce proveniente dalla Pinacoteca di Camerino.
Il dipinto sviluppa il tema del Christus patiens, col capo leggermente reclinato sulla spalla, il volto segnato da profonde scanalature d’ombra, dall’espressione intensamente dolorosa e umana. La grande linea arcuata del corpo è tagliata in due dal perizoma violaceo, solcato da una fitta raggiera di pieghe minute, di inimitabile finezza. Di tutt’altra inclinazione formale appaiono gli affreschi sotto il Voltone del Palazzo del Podestà. In essi è svolto un tema di grande rarità a queste latitudini, imperniato sulla visualizzazione di vicende collegate al mondo feudale e cavalleresco.
Allo scadere del XIII secolo, in quel grande sacrario di arte e fede costituito dalla Basilica francescana di Assisi, Giotto dava un nuovo volto alla pittura italiana, «rimutandola di greco in latino», e conferendo una dignità nuova all’uomo stesso. Non è dato sapere se il messaggio giottesco penetrò in area fabrianese in via diretta. Ma è assai probabile che vi giungesse di riflesso, diffuso per la mano di maestranze forestiere e in specie per l’attività che vi svolsero i pittori riminesi.
Il polittico di Giuliano da Rimini, presente in mostra, mostra una finissima tessitura di elementi giotteschi, bizantini e gotici.
Ed è proprio un maestro stilisticamente collegato a Giuliano che porta a compimento la grande Maestà della Badia di S. Emiliano (detto, per questo, Maestro di Sant’Emiliano), affresco staccato per scongiurarne la rovina e trasferito in Pinacoteca. Senza ombra di dubbio, si tratta dell’opera più alta e intrigante del primo Trecento realizzata nel Fabrianese.
Tra il quarto e il quinto decennio del Trecento, irrompe sulla ribalta fabrianese un altro anonimo protagonista, il più grande di tutti: l’autore degli affreschi della Badia di San Biagio in Caprile, noto ormai come Maestro di Campodonico. L’artista dovette operare in zona qualche anno prima del 1345, come tenderebbero indirettamente a provare gli affreschi di santa Maria Maddalena, raffiguranti l’Annunciazione e la Crocifissione, affreschi, ora staccati e presenti in mostra. Nel primo dei due soggetti ombre dense e verdastre delineano il capo bellissimo dell’Arcangelo, lasciando arguire come il Maestro fosse bene addentro a quelle problematiche di forma e di colore divulgate in Assisi da Giotto e dei Senesi. Nella accentuata corposità della figura angelica si riscontra il tipo fisico robusto e di prorompente vitalità così caro all’artista, mentre la ritmatura delle pieghe asseconda così apertamente la fisicità della forma da far pensare a una puntuale, e significativa, necessità di raffigurazione, che evade dagli intendimenti formali di natura empirica comuni a tanta pittura gotica. Tra i prestigiosi virgulti, dopo il Maestro di Campodonico, è presente Allegretto Nuzi, con una forte attrazione per il mondo artistico toscano. Negli anni compresi tra il quinto e il sesto decennio spettano le prime testimonianze dell’attività fabrianese del Nuzi: gli affreschi condotti nella sacrestia della Chiesa di san Domenico. Sulla parete d’ingresso si ammirano i soggetti della Madonna col Bambino e di Babilonia a cavallo dell’hidra dalle sette teste.
Notevole per finezza di modellato e intensità sentimentale, appare la slanciata figura della Vergine che si impone allo sguardo per la regia ritmica che controlla con fermezza l’articolato diramarsi delle linee e dei piani.
Francesco di Cecco Ghissi, nel retaggio di uno stretto ascendente nunziano, si propone come un interessante artista nella tipicizzazione somatica dei personaggi, come nella splendida Madonna dell’Umiltà. L’opera costituisce uno dei più antichi esempi di Madonna del Latte conservato nelle Marche. La Vergine, seduta su un cuscino irradiante di luce, stringe tra le sue braccia il Figlio che sugge dal suo seno il latte. È avvolta in eleganti vesti decorate con motivi geometrici, vegetali ed animali dipinti in oro.
Di lì a Gentile da Fabriano il passo è breve. L’artista avverte i rischi e i limiti dei suoi maestri e preferisce misurarsi fuori di Fabriano, con i pittori che lavorano ad Assisi, a Foligno, a Perugia, a Gubbio, a Urbino, da Cola Petruccioli a Ottaviano Nelli, ai fratelli Salimbeni.
Così si moltiplica all’infinito, come un prisma, quel mondo severo che, cento anni prima, aveva avuto la sola faccia e la sola luce di Giotto. Adesso è una festa della pittura, e Gentile non vuole rinunciare a nessun piacere di ricerca di forme e colori. Gentile riparte da Giotto e lo rinnova, lo rifonda, lo rigenera in un tripudio intenso e luminoso di un naturalismo magico.
Maria Paola Forlani
Da Giotto a Gentile. Pittura e scultura
a Fabriano tra Due e Trecento
A cura di Vittorio Sgarbi
Fabriano 25 luglio – 30 novembre 2014
Pinacoteca Civica “Bruno Molajoli”.
(Piazza Giovanni Paolo II, tel. 0732 0421950732 042195, orari 10-13 16-19, chiuso lunedì)
www.pinacotecafabriano.it