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Marisa Cecchetti. “Fuera del juego” di Heberto Padilla
17 Agosto 2014
 

Heberto Padilla

Fuera del juego

Traduzione di Gordiano Lupi

EIF, 2013, pp. 160, € 12,00

 

Due anni prima della morte Heberto Padilla (1932-2000) ha riconosciuto che Fuera del Juego è il suo segno distintivo, la sua cifra artistica, quasi il suo onore. Premiato nel 1968 da una giuria di scrittori tra i quali José Lezama Lima, con motivazioni relative alle qualità formali rivelatrici di maturità poetica, nonché all’aspetto critico, polemico, non apologetico, pure se vincolato alle idee della rivoluzione, in una edizione del 1998 di questa raccolta Padilla afferma di non aver mai avuto in mente di scrivere un libro né a favore né contro la Rivoluzione, ma era sua intenzione occuparsi dei problemi sociali. E non si sente un eroe: «Lui non vuole essere un eroe,/ e neppure il romantico intorno al quale/ poter intrecciare una leggenda;/ ma è condannato a questa vita».

Tuttavia è diventato faticoso per lui condividere lo spirito di chi ha scritto, sotto il cartellone della Standard Oil Company, a lettere rozze, PATRIA O MORTE. Eppure Padilla ama la sua isola, e si struggerà di nostalgia quando finalmente sarà altrove, come si legge nello scritto postumo ritrovato, che introduce questa edizione: «Adesso sono in Alabama insieme a mia moglie Belkis, rimpiangiamo la debole pioggerellina dell’inverno indefinito di Cuba, quando sul muro del Malecón si alzano onde enormi e si infrangono sulle scogliere».

Come una assicurazione sul futuro o una formula scaramantica, con la tenacia di chi vede («e l’occhio è obbligato a vedere, a vedere, a vedere»), critica, soffre ma ancora si lascia qualche speranza, lui aveva scritto: «Io vivo a Cuba. Sempre/ ho vissuto a Cuba…/ Ed è certo/ che ci furono i giorni della Rivoluzione/ nei quali l’isola sarebbe potuta esplodere tra le onde/ …io mi trovavo in questa sponda/ sudando/ camminando/ in maniche di camicia,/ ebbro di vento e di fogliame/ quando il sole e il mare si arrampicano sulle terrazze/ e cantano la loro alleluia».

Giorni di luce. Ma il suo sogno rivoluzionario è andato in pezzi, troppe cose hanno dovuto vedere i suoi occhi. E il suo peccato è stato quello di scrivere, lui dice, “seguendo il mio istinto di poeta”. Un poeta comunque che è sempre voluto rimanere fuori dal gioco, del resto un poeta non serve al dittatore, anzi, è “una spina nel fianco”.

Ma ha scritto poesie dense di realismo che suonano come critica. Se la critica non è servita di riflessione al Potere, anzi è stata causa della sua accusa di cospirazione contro lo Stato, almeno è servita alla sua coscienza, anche se ne ha dovuto pagare il fio: «Abbiamo aperto case per i dittatori/ e per i loro ministri,/ strade/ per riempirle di fanfaronate».

Quella Rivoluzione-sogno è stata un tradimento: «Io penso a quelli che muoiono./ A quelli che scappano./ A quelli che non comprendono/ o che (comprendendo) si intimoriscono./ Penso alle scialuppe nere/ che salpano (a mezzanotte) piene di fuggitivi/ Penso a quelli che soffrono e che ridono/ a quelli che lottano al mio fianco/ tremendamente/ …Però, Rivoluzione, non disertiamo».

Ci vuole coraggio a continuare a sognare («Davvero pensavi seriamente, mio vecchio/ Calderon de la Barca che la vita è un sogno?») davanti a scene di violenza e di morte: «Il pugno in piena faccia/ e lo spintone a mezzanotte sono il fiore dei condannati/ Il andiamo, cazzo, e smetti di dirlo tutto in una volta/ è il crisantemo dei condannati/ …Non c’è struttura che possa sostenere le ossa dei condannati/ Il puzzo e la luce arrampicata come una gatta che vaga per la prigione».

Padilla aveva avuto fiducia nella rivoluzione castrista come portatrice di libertà, ricorda «le colombe volare sulle spalle d’un giovane condottiero e lo sguardo fiero d’un argentino a suo fianco». Si è accorto più tardi, purtroppo, che «il primo era un maestro di suggestive coreografie assetato di potere e il secondo soltanto un idealista che sarebbe andato a morire su un nuovo campo di battaglia». Aveva capito anche che la poesia dà fastidio al potere.

Non può accettare che non ci sia alternativa, che non ci sia scelta. Non vuole un Paese «governato da un uomo carismatico che cambiava piani e idee ogni volta che pisciava». Si è accorto che sono cambiate troppe cose che prima non aveva compreso, e non si è adeguato, non ha accettato tutto con rassegnazione. Finisce in carcere, il 20 marzo 1971, in una cella di due metri, dove dice di essere stato malmenato, torturato fisicamente e psicologicamente. A niente valgono le intercessioni a suo favore degli scrittori di tutto il mondo che tagliano i ponti con Cuba e condannano i metodi totalitari di Castro.

Solo accettando l’umiliazione dell’autocritica, recitando la sua discolpa come da copione stalinista, Padilla potrà ottenere la libertà dopo 37 giorni di carcere. Rimane a Cuba, dimenticato come intellettuale, fino al 1980, quando viene accettata la sua richiesta di espatrio e vola negli USA: «Andiamocene a cercare sopra i grattaceli/ il filo rotto/ della cometa dei miei bambini/ che si è ingarbugliato nel vecchio treppiedi dell’artigliere». Una raccolta, questa bilingue Italiano-Spagnolo, che è come un pugno nello stomaco per chi legge, dura, che rifiuta un lirismo che non sarebbe servito alla denuncia. Dolorosa per il destinatario ma che deve essere costata un infinito dolore a chi l’ha scritta.

 

Marisa Cecchetti


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