«Vi ho detto che le parole e le immagini non sono sufficienti per descrivere notti come questa. Ma devo provare a scrivere qualcosa per voi, perché siamo occhi e orecchie di un pezzetto di storia ebraica, e qualche volta sentiamo il bisogno di essere anche una piccola voce. Dobbiamo informarci reciprocamente di ciò che avviene negli angoli più reconditi di questo mondo, e ciascuno deve contribuire con un minuscolo frammento, per poter formare alla fine della guerra un mosaico che copra il mondo intero».
«Devo scrivere tutto rapidamente e alla rinfusa; più tardi non ne sarò capace, perché penserò che non sia stato vero, già ora sembra una visione che va allontanandosi da me».
«I lattanti erano la cosa peggiore. E quella ragazza paralizzata, che non voleva portare con sé nemmeno un piatto, e che trovava così difficile morire. E quel ragazzo spaventato: pensava di essere al sicuro, ma si sbagliava, improvvisamente gli era stato detto che doveva partire, aveva perso la testa ed era scappato. Gli altri ebrei hanno dovuto dargli la caccia, perché se non l’avessero trovato, sarebbero state deportate decine di altre persone al suo posto. Lo hanno trovato abbastanza in fretta in una tenda, ma nonostante questo..., nonostante questo anche altri hanno dovuto partire, per dare un’agghiacciante ammonizione».
«E perché non avrebbe potuto essere colpito un binario ferroviario, impedendo al treno di partire? Una cosa del genere non è mai accaduta, ma a ogni partenza tutti sperano con ostinazione».
«Ma questa notte vesto tutti i neonati, e parlo alle madri per calmarle, e lo definisco un ‘aiuto’; e potrei quasi maledirmi per questo, perché sappiamo che i nostri malati e i più indifesi dovranno sopportare la fame, il caldo e il freddo, la mancanza di un riparo e la rovina; e tuttavia li vestiamo e li accompagniamo ai miseri carri di bestiame, e se non riescono a camminare li trasportiamo in barella. Che cosa sta succedendo qui, in quale misterioso e terribile meccanismo siamo caduti? Non pensiamo di sbarazzarci di questa domanda semplicemente rispondendo che siamo tutti codardi. Non siamo così insensibili. Ci troviamo di fronte a questioni più profonde...»
«Una ragazza mi chiama. È seduta dritta sul letto con gli occhi sbarrati. Ha i polsi sottili e un visino magro e trasparente. È parzialmente paralizzata, aveva appena ripreso a camminare fra due infermiere, un piccolo passo dopo l’altro. “Hai sentito, devo partire”, bisbiglia. “Come, devi partire?” Ci guardiamo un attimo, senza parlare. Non ha più viso, ha soltanto gli occhi. Alla fine dice con una vocina atona: “È un peccato, eh, che tutto quello che hai imparato nella vita sia stato vano” e “com’è difficile morire, vero?” Improvvisamente l’innaturale rigidità del suo visino viene scomposta dalle lacrime...
Nell’angolo del lavatoio c’è una donnina che stringe fra le braccia una bacinella colma di biancheria gocciolante. Mi afferra. Ha l’aria stranita. Mi rovescia addosso una cascata di parole. “Non si può, com’è possibile, devo partire e per domani la mia biancheria non si sarà nemmeno asciugata”».
«Quando dico che quella notte mi trovavo all’inferno, che cosa significa per voi questa affermazione? Nel cuore della notte me lo sono detto ad alta voce, con una certa lucidità: “Ecco, ora sono proprio all’inferno”».
«Da ieri il treno divide il campo in due: una triste fila di vagoni merci desolatamente vuoti, con davanti e dietro una carrozza passeggeri per il plotone di accompagnamento.
“Mio Dio, gli sportelli si chiuderanno veramente tutti? Sì, si chiudono. Si chiudono sulla massa di persone schiacciate e spinte indietro nei vagoni merci. Attraverso le strette aperture in alto si vedono teste e mani, che quando il treno si mette in movimento fanno cenni di saluto”.
Mi guarda a lungo in silenzio con aria indagatrice, e poi esclama con voce accorata: “Come vorrei nuotare nelle mie lacrime verso un mondo migliore”».