«Quando racconto la storia di mia madre, la dico con potere e coraggio, non dal punto di vista di un essere singhiozzante, indifeso e sconfitto. Lei è un modello e un’ispirazione. Più importante ancora, lei è l’eroina della propria storia, non solo una vittima». Così Hellen Matsvisi, giovane scrittrice femminista dello Zimbabwe, spiega il suo romanzo Quel che loro chiamano amore, un testo in cui dà testimonianza di come la madre uscì dalla relazione violenta con il proprio marito, che l’aveva anche infettata con l’Hiv. Constance lasciò la casa con i due bambini, Hellen e suo fratello, trovò lavoro come domestica e crebbe i figli da sola. «Un atto di sfida, mentre il resto dei membri della famiglia le faceva pressione affinché restasse», prosegue Hellen. «E il mio scritto è una deliberata celebrazione del coraggio delle donne che trovano potere in se stesse per cambiare le loro vite. Ciò che il patriarcato chiama “amore” è sottomissione e silenzio».
Dal 2011, Hellen è un membro della Katswe Sistahood (Sorellanza Katswe), un movimento femminista che intende decostruire i tabù e gli stigma che circondano i corpi delle donne e la sessualità. Sono donne giovani e giovanissime, ma il loro creare spazi per la mobilitazione contro la violenza e per i diritti di salute sessuale e riproduttiva comincia in un modo molto antico, con i cosiddetti pachotos o “chiacchiere accanto al focolare”. Hellen le ha incontrate così. All’epoca, stava lottando per poter proseguire la propria istruzione e trovare un impiego che le garantisse indipendenza, contro le convinzioni del fratello che la voleva in casa: «Morivo dal desiderio di andare all’università, di approfondire i miei studi. Un giorno sgattaiolai fuori di casa per andare a trovarmi un lavoro part-time. Quando la sera tornai, mio fratello mi picchiò sino a ridurmi a una polpetta, solo perché ero uscita di casa senza il suo permesso». Hellen si sentiva paralizzata, le sembrava che le sue probabilità di emergere da quell’ambiente tossico fossero sempre più limitate.
Poco tempo dopo, vide un gruppo di giovani donne entrare nella casa accanto alla sua. «Erano così gioiose, così vibranti, che suscitarono la mia curiosità». Hellen andò a incontrarle e cominciò a partecipare alle loro attività: «Un giorno mi portarono ad uno dei pachotos, in un sobborgo vicino. C’erano donne rurali e donne delle città, donne istruite e donne analfabete, donne dai diversi orientamenti sessuali… Fui meravigliata da come si rispettavano l’un l’altra, e da come facevano a turno nel narrare le loro esperienze di vita e nel condividere storie di resistenza e di successo contro il patriarcato. Ho tratto incredibili benefici da queste discussioni. Ho imparato un mucchio di cose sui diritti delle donne. Ho compreso pienamente che quel che mio fratello mi stava facendo era sbagliato e che io avevo diritto alla libertà. Grazie a Katswe, ho trovato la forza e il coraggio di iscrivermi all’Università delle Donne in Africa, dove mi sono laureata in Studi di Genere. Per me, il femminismo è il reclamare il nostro potere come donne ed usare quel potere a beneficio di ogni altro attorno a noi. Ho imparato che viviamo tutte nella “Casa del padrone” (Audre Lorde: “Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”, ndt) e che dobbiamo sezionare il concetto di potere per capire come le strutture visibili, invisibili e nascoste del potere stesso lavorano insieme per opprimere le donne. Il cambiamento inizia con il riconoscere il proprio potere individuale e il passo successivo è collegarlo con altri per costruire forti movimenti contro l’oppressione. Il mio tipo di attivismo preferito è infatti l’educazione popolare femminista, un modo molto diverso di apprendere rispetto a quel che fai a scuola: è più partecipativo, più pratico e riflessivo. Credo che noi femministe siamo in grado di operare il cambiamento».
La testimonianza di Hellen Matsvisi è stata raccolta da JASS (Just Associates), un’organizzazione internazionale femminista fondata nel 2003 da attiviste, educatrici e studiose di 13 nazioni al fine di costruire e mobilitare il potere collettivo delle donne per la giustizia. A tutt’oggi, JASS fornisce sostegno e training alle attiviste ed alle organizzazioni femministe in 27 diversi paesi: «Chiamiamo le metodologie che usiamo educazione popolare femminista. Cominciando con la condivisione di storie e preoccupazioni, le donne generano analisi, nuove conoscenze e piani pratici per l’azione e la collaborazione».
Maria G. Di Rienzo
(da Lunanuvola's Blog, 7 agosto 2014)