Considerato uno dei massimi poeti arabi contemporanei, Mahmud Darwish è la voce più nota della letteratura palestinese. Nato nel 1941 a Birwa, un villaggio della Galilea nell’entroterra di Acri, ne fugge con la famiglia e il resto della popolazione all’età di sei anni, durante i convulsi eventi del ’48, riparando in un campo profughi del Libano. Vi fa ritorno in clandestinità un anno più tardi per scoprire che il villaggio è stato raso al suolo e soppiantato da una colonia di popolamento israeliana. Rimasto in Galilea assieme alla sua famiglia con uno statuto irregolare, comincia la sua militanza politica nel partito comunista israeliano (Rakah), collaborando al suo giornale al-Ittihàd e ad altre testate contestualmente alla sua formazione letteraria.
Negli anni ’60, mentre escono le sue prime raccolte di poesie, è ripetutamente imprigionato o costretto agli arresti domiciliari. Dopo un breve soggiorno di studio in Unione Sovietica, nel ’71, già divenuto celebre nel mondo arabo per alcune sue poesie, parte in esilio per il Cairo, dove collabora alla redazione di al-Ahrâm. Poco dopo si trasferisce a Beirut, dove lavora come redattore capo della rivista Shu’ùn filastiniyya (“Affari palestinesi”), pubblicata dal Centro di Ricerche Palestinesi, fino all’invasione israeliana del Libano nel 1982. Segue allora la dirigenza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp) nel suo esilio a Tunisi, per poi trascorrere dieci anni a Parigi con periodici spostamenti in altre città d’Europa e del Mediterraneo.
Nel 1987 entra a far parte del Comitato Esecutivo dell’Olp, dal quale si dimette nel 1993 per dissenso nei confronti degli accordi di Oslo, senza però sottrarsi alle loro conseguenze: lascerà infatti gli allori dell’esilio parigino per le durezze dei Territori occupati, stabilendosi nel 1996 a Ramallah, dove risiede fino alla morte avvenuta nel 2008, salvo periodici soggiorni ad Amman.
Nel ’96 trasferisce a Ramallah anche la sede della rivista al-Karmel (“Il Carmelo”), una delle riviste letterarie e culturali più prestigiose del mondo arabo, da lui fondata e diretta fin dagli anni ’70, e pubblicata prima a Beirut, poi a Cipro. Vincitore di molti premi letterari, ovunque nel mondo, le sue opere sono tradotte in molte lingue.
La sua ricca e varia produzione poetica, che è stata oggetto di studi e traduzioni in decine di lingue, ha accompagnato tutte le fasi di questa tormentata vicenda biografica, con un progressivo ampliamento di motivi tematici cui ha fatto riscontro una crescente padronanza dei suoi mezzi espressivi e un’inesausta sperimentazione.
La sua fortuna presso il grande pubblico, che affollava le sue frequenti recitazioni pubbliche, è legata in primo luogo ai componimenti più esplicitamente politici, come Bitàqat huwiyya (Carta d’identità, 1964) o Abirùn f† kalàm ‘àbir (Passanti tra parole passeggere, composto durante la prima intifada, che gli valse gli strali del Primo Ministro israeliano Yitzhak Shamir dagli spalti della Knesset), o a poesie che – senza nulla togliere alla loro maturità stilistica – si prestano anche a una fruizione immediata, tanto da essere state anche musicate, come la celebre “Ila ummi” (A mia madre, 1966). In molti dei suoi versi, liberi ma studiatissimi nei ritmi, nelle allitterazioni e nelle ripetizioni, fino alla sperimentazione della poesia in prosa, prevale tuttavia una vena più ermetica, vicina per certi versi alla poetica dei simbolisti e dei surrealisti francesi, sebbene una vigile disciplina del linguaggio lo metta al riparo da compiacimenti e ridondanze. L’esperienza personale dell’esilio tende così a farsi metafora di una condizione esistenziale universale, mentre il riferimento alla terra d’origine finirà progressivamente per filtrare attraverso elementi paesaggistici che fungono da “correlativi oggettivi del mondo interiore” (come li definisce la Ladikoff) o attraverso allusioni a una memoria storica e mitica plurale e stratificata, che abbraccia tanto le antiche civiltà del Mediterraneo quanto l’eredità araba classica, compresa l’esperienza andalusa. Tra le figure retoriche più care al poeta prevale l’ossimoro, che accostando gli opposti gli consente di scardinare le categorie spazio-temporali. Alla sua produzione poetica si affianca un’attività altrettanto vivace di prosatore e pubblicista, all’interno della quale spicca Dhakira li-l-nisyàn (Una memoria per l’oblio), che rievoca l’esperienza della guerra civile libanese.
Nella scelta dei versi qui presentati è stata privilegiata una vena ora intimistica e quasi minimalista, che si esprime con un linguaggio diretto, specie nelle liriche scelte dalle raccolte giovanili, ora più raffinata e intessuta di allusioni alla poesia araba classica, come in quelle più recenti.
Francesco Zappa
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Con l'imbarazzo della scelta copio qualche verso da “Stato d'assedio”, una delle 24 poesie di Darwish raccolte nello 'speciale' Notiziario CDP n. 238, marzo-aprile 2014, distribuito in questi giorni. (Enrico Peyretti)
[A un assassino]
Se avessi visto in faccia la vittima
e riflettuto, avresti ricordato tua madre nella camera
a gas e buttato le ragioni del fucile
avresti cambiato idea: un'identità non la ritrovi così
[A un altro assassino]
Se non l'avessi ammazzato nel grembo
ancora trenta giorni e tutto sarebbe cambiato:
l'occupazione potrebbe finire e il bambino senza ricordo
del tempo dell'assedio
crescerebbe forte, da giovane
studierebbe con una delle tue figlie
la storia antica dell'Asia,
s'innamorerebbero,
farebbero una figlia [sarebbe ebrea di nascita].
E quindi, cos'hai fatto?
Tua figlia adesso è vedova
la figlia di tua figlia orfana.
Cos'hai fatto della tua famiglia raminga?
Come hai potuto colpire tre colombe
con una pallottola sola?
Mahmud Darwish
(in Notiziario Cdp n. 238, Speciale sulla poesia di Mahmud Darwish)
cdp@comune.pistoia.it