Con la sacca scolorita, ora l’artista pellegrino si ferma sotto la tettoia, cerca riparo dal sole, allenta i lacci dei sandali silvestri.
Si porta alle labbra, amare d’erbe selvatiche, la borraccia spinosa. Si disseta.
Stanche le membra, stanca la mente. S’adagia sulla pietra levigata.
Un uomo in fuga dal mondo, non da se stesso, anzi è se stesso che cerca.
Supino sotto il cielo turchino, gli fanno da schermo le colline e i rami di una quercia sulle cui ampie foglie, magicamente, rivede – in flashback – ad una ad una, tutte le sue esperienze emotive, tragiche ed angoscianti.
Arruolato volontario, come tiratore scelto, nella missione in Afghanistan, ha conosciuto l’umiliazione dell’isolamento; ha visto disperdersi i contorni delle belle figure di amici nelle movenze oscure dell’uguale rosario dei giorni e nel buio che muta la scena; ha atteso inutilmente il sorgere delle torri incantate dell’uguaglianza e della democrazia.
Mosso dalla passione per la libertà di quello Stato e desideroso di conoscere tutti gli abissi della vita, ha affrontato serenamente paure e sangue, escrementi e sguardi imploranti di uomini accecati dalla sabbia rovente. Ha stretto al suo cuore la disperazione di mani che chiedevano aiuto, le grida assordanti dei prigionieri tormentati.
Ora nel raggio che fende le pallidi absidi celesti, scorge le ferite aperte dell’umanità smarrita. Anche nei suoi dipinti vibra la maestosità della morte di massa, ove le luci degli scoppi sono immortalati in un trionfo abbagliante di linee e cromatismi esplosivi.
Voce umile la sua, cantico sommesso di perenne pellegrino del dolore, nei tempi.
Ovunque giunge, però, assiste alla dissoluzione dei suoi ideali: si vanifica l’arte, si distrugge la musica, diventa pianto il canto.
L’artista pellegrino ritorna a casa svuotato, ossessionato dal massacro bellico.
Riprende l’attività pittorica con il tentativo di dipingere i soggetti con distacco, con obiettività, ma viene accusato di essere un fanatico della verità.
La verità non esiste, dicono i negatori della realtà.
Ma l’artista è mosso da un bisogno intimo di calarsi nei fatti tangibili, libero e felice di non appartenere a nessuna ideologia.
Libero di essere se stesso va… oscilla nell’immenso, attratto dai venti raminghi su per solchi astrali, tra bagliori zodiacali. Tutto confluisce nella sua arte.
Ombre, però, dai mille tentacoli, salgono da profondità oscure, gli avvelenano l’anima che scende, come scafo immemore, su acque infide; erra il suo pensiero tra chiarori senza luce, ascolta parole senza suono.
L’artista pellegrino si muove tra la vita e la morte, tra dissoluzione di valori ed intimi spiragli di splendore.
Sotto la quercia, nel silenzio profumato di muschio e grondante gocce di tempo, sfilano pallide le ore.
S’abbandona al sonno ma il suo respiro fluttua tra il verde della campagna, s’aggrappa ai rami degli alberi, ne beve l’essenza.
Nel silenzio notturno si sfrangiano le attese e le stelle in discesa aprono un varco alla luce.
L’aver respirato la morte dà all’artista pellegrino, la consapevolezza che, calarsi nel fango dell’orrore e dell’errore, è verità: il mondo è varietà e l’ibrido che ci sta di fronte rimanda al negativo che sta dentro di noi.
Un trasalir di vento con sapore d’Ignoto sveglia l’uomo.
Lungo la spirale del cammino s’è dilatata la mente, rotte le spire del letargo.
Non più sgomento. L’arcano, intessuto con i fili sottili dell’argentea luna, l’avviluppa.
Sa bene di non essere vate né voce messianica di salvezza, ma egli – come il poeta – vuole andare sempre alla ricerca della verità contro l’appiattimento delle menti.
Si riveste di senso il suo pellegrinare.
Riprende il suo “andare”. Altrove si volge e dove incontra brune macchie, ostacoli o pericolosi scogli, basta che l’occhio s’alzi verso l’Alto e cambi rotta.
Nuovo vigore affiora dal suo profondo, in serbo le fuggitive impronte di magie vagabonde per la conta dei giorni e delle notti, per sedare il tumulto della luce infranta.
Si riveste di senso il suo pellegrinare.
Giuseppina Rando
Immagine:
Paul Gauguin, Da dove veniamo? Che siamo? Dove andiamo?
olio su tela 139 x 374,5 cm, 1897 (Museum of Fine Arts, Boston)